Quali potrebbero essere gli effetti di una guerra commerciale mondiale su un?economia locale, come quella varesina, fortemente internazionalizzata? L?analisi alla luce delle minacce di nuovi dazi che arrivano dagli Stati Uniti

C'era una volta il West, a volte, non è solo il titolo di un film. Può essere un'attitudine per vivere la vita, delle persone e, perché no, anche delle nazioni. Osservando in maniera distratta la cronaca economica di questi ultimi mesi a molti sarà tornata in mente l'epopea del Far West. Quando l'America estrema, quella lontano dalle coste atlantiche, non era ancora una terra di innovazione, ma una terra di conquista. Quando le leggi non erano ancora codificate, ma vigeva la legge del più forte. Quando le corti di giustizia (leggi nel paragone di oggi le organizzazioni del commercio internazionale) non esistevano e le questioni più spinose si risolvevano sotto il sole con sfide all'O.K. Corral.

Ecco, ascoltando alcune recenti dichiarazioni sul commercio internazionale, sembra di essere tornati un poco indietro nel tempo. Si inizia con un dazio "tanto per gradire", tanto per affermare se stessi con una prova di forza e non si sa dove si va a finire. Né quanto valore, alla fine del complicato meccanismo di risposte e ritorsioni, si stia per bruciare sul campo. Le guerre commerciali stanno diventando le moderne guerre per i Paesi economicamente avanzati: non sono guerre fisiche, ma lasciano spesso dietro rischi di devastazione economica difficili da valutare a priori. Al di là del giudizio morale, che attiene alla sfera delle idee ed all'esperienza di ciascuno, è indubbio che per affrontarle non occorra un imponente apparato di Difesa, ma un'economia sana ed "autosostenibile". Un'economia che, in tempi di globalizzazione, non ha praticamente più nessuno.

         

Neppure gli Usa, che in queste settimane hanno lanciato la sfida e che devono fronteggiare un disavanzo commerciale manifatturiero da oltre 800 miliardi di dollari. Anche loro devono tenere in debito conto i numerosi rapporti di produzione e partecipazione finanziaria incrociati con svariati Paesi nel resto del mondo. La scala produttiva mondiale è ormai troppo capillare e interconnessa per poter ragionare secondo il solo parametro del dazio unilateralmente imposto. Si attiva un pulsante, ma non si conoscono tutti gli effetti retroattivi che con esso si mettono in moto.

Si parla di circa 2.800 imprese esportatrici manifatturiere nel solo Varesotto, per oltre 9 miliardi di euro di export generato. Nel 2017, la grande apertura internazionale della provincia si è tradotta in 516 milioni di euro esportati solo negli Stati Uniti

Iniziano ora a circolare le prime stime, alcuni centri di ricerca parlano di 160.000 posti lavoro a rischio nell'Unione Europea, per l'industria siderurgica e l'indotto da essa generata. È sempre difficile, ed anche rischioso, stimare la forchetta di impatto, perché i rischi sono anche quelli più generali connessi al peggioramento della fiducia che potrebbe avere effetti sulla crescita e l'inflazione. Tuttavia alcune evidenze ci sono. Ad esempio, secondo lo Us Census Bureau, l'Italia è l'ottavo Paese per saldo commerciale bilaterale estero degli Usa, con un'esposizione particolare nella produzione di mobili. È anche un Paese con circa 195.000 imprese esportatrici, di cui circa il 45% sono manifatturiere. E tradizionalmente la provincia di Varese è una tra le più aperte al mondo con una percentuale di circa il 38,3% di imprese esportatrici rispetto al totale delle imprese manifatturiere attive, contro il 22,7% della media nazionale. Si parla di circa 2.800 imprese esportatrici manifatturiere nel solo Varesotto, per oltre 9 miliardi di euro di export generato. Nel 2017, la grande apertura internazionale della provincia si è tradotta in circa 516 milioni di euro esportati solo negli Stati Uniti. Un'altra evidenza riguarda i settori "potenzialmente sensibili", quelli in cui gli Usa hanno un maggior deficit commerciale: veicoli a motore, petrolio, apparecchi per telecomunicazione, macchine per l'elaborazione dati, mobili, medicinali, abbigliamento e tessuti, giocattoli e sport, calzature, parti ed accessori motoveicoli, apparecchiature elettriche, televisori.

In alcuni di essi abbiamo anche nel territorio importanti produzioni. Oltre al comparto dell'acciaio e dell'alluminio, in cui abbiamo significative specializzazioni grazie al forte settore della meccanica varesina, siamo direttamente esposti con gli Usa in alcuni dei settori "potenzialmente critici": tessile e abbigliamento (41 milioni di euro di export nel 2017), calzature (2 milioni) veicoli a motore, che per noi sono moto (9 milioni), parti ed accessori di autoveicoli (11milioni), mobili (10 milioni), prodotti farmaceutici e medicinali (17 milioni). Non rientrano nei settori "potenzialmente critici", ma sono parte importante delle nostre esportazioni verso gli States il settore delle macchine per l'industria, in tutte le loro forme (130 milioni), quello aerospaziale (35 milioni), alimentari e bevande (50 milioni). Per completezza andrebbero valutati gli effetti di filiera, per arrivare a cogliere quanta parte di esportazione indiretta di componentistica subirebbe l'impatto di penalizzazioni verso prodotti che vengono assemblati in via definitiva in altri paesi (la filiera dell'automotive potrebbe esserne un primo significativo esempio).

La scala produttiva mondiale è ormai troppo capillare e interconnessa per poter ragionare secondo il solo parametro del dazio unilateralmente imposto

Insomma la forte apertura internazionale delle nostre imprese che in alcuni settori supera anche il 60% è stata in questi anni la principale garanzia di sopravvivenza per il sistema produttivo varesino.  Sarebbe un vero peccato doverci rinunciare. Anche perché si inizia sempre con un blocco commerciale e poi arriva il resto. Gli Stati Uniti lo sanno bene, visto che la loro indipendenza alla fine del '700 iniziò proprio con una rivolta commerciale. La rivolta del Tea di bostoniana memoria.



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