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Ci sono sempre state, è solo questione di parole. Negli anni novanta si  chiamavano nuove imprese, attorno al duemila erano  dot-com, adesso sono  startup. Il tempo è passato, gli scenari sociali e tecnologici sono cambiati, l’economia mondiale è diventata una sorta di tela di Penelope che costruisce e brucia ricchezza a prescindere. Al centro dell’attenzione rimane sempre l’imprenditorialità, cioè la capacità di un imprenditore o di un manager di generare e di portare a compimento (economico e competitivo) una sintesi innovativa tra dei bisogni latenti di mercato, un prodotto/servizio che dia ad essi risposta, uno stock di risorse e di competenze che consentano di realizzare quel prodotto/servizio.  

In Italia la sfida è di iniettare, con nuove imprese innovative, imprenditorialità nei contesti in cui il Paese ha carte da giocare per la propria crescita. In pratica, guardiamo alla Silicon Valley per imparare, ma teniamo alta la tensione sulla nostra cara old economy

Una startup, come le sue antenate,  rappresenta un embrione di impresa, deve esprimere in vitro una coerenza di fondo tra i tre pilastri appena richiamati, deve percorrere una lunga strada  che parte dalla incubazione dell’idea imprenditoriale, passa al suo sviluppo e affinamento, giunge alla realizzazione e all’ingresso sul mercato.  E’ un percorso ad ostacoli, più o meno prevedibili, più o meno facilmente superabili. A volte è l’idea ad essere un po’ strampalata. Senza scomodare Enzo Tortora e i tempi di Portobello, alcuni progetti già a prima vista non evocano  quella prospettiva di sintesi imprenditoriale, di fit strategico,  che costituisce il muro portante di un’impresa a regime. Si percepisce uno spazio di  mercato ma non si va a fondo delle caratteristiche del  prodotto, ci si entusiasma per una determinata applicazione senza valutare se risponda effettivamente a dei bisogni, ci si barrica attorno a  risorse e competenze  sterili o obsolete. Più spesso, è la gestione del processo a rivelarsi problematica: la velocità del cambiamento tecnologico e sociale brucia l’attività di incubazione, le sperimentazioni non offrono i risultati auspicati, le risorse finanziarie e organizzative scarseggiano, i conti non tornano… Nulla di nuovo sotto il sole. Di processi di creazione “incompiuti” e di “mortalità infantile” delle nuove iniziative imprenditoriali si parlava e si scriveva già nei primi anni novanta. La sproporzione tra le poche decine di unicorni (le startup tecnologiche non quotate e valutate più di un miliardo di dollari) e le  migliaia e migliaia  di insuccessi  di questi ultimi anni  non deve dunque sorprendere.

Tutto ciò premesso, tre considerazioni. La prima: ben vengano le startup. Ne abbiamo bisogno, perché rappresentano la risposta imprenditoriale alle opportunità che il mondo digitale va dispiegando a pieni palmenti. La lente non deve cadere  tanto su Facebook, Twitter e Uber, quanto sui fenomeni di  “imprenditorialità tech” che stanno generando confortanti risultati  anche  in Italia.  I neo imprenditori vanno legittimati e supportati con gli opportuni strumenti: incubatori, capitale, formazione, tutoring, incentivi e via discorrendo.

Il vento della  Silicon Valley non ha forza sufficiente per risolvere i problemi dell’economia mondiale. Soprattutto, qualche dubbio sulla sua tenuta comincia a circolare

La seconda: occhio alle sirene. Il vento della  Silicon Valley non ha forza sufficiente per risolvere i problemi dell’economia mondiale. Soprattutto, qualche dubbio sulla sua tenuta comincia a circolare. L’11 aprile, il CorrierEconomia, riprendendo un articolo del Financial Times e titolando  “Ma si è già inceppato il grande sogno delle startup”, evidenziava che la bolla delle imprese tech su cui i venture capital si sono catapultati si sta sgonfiando. Non solo, rivelava  che la SEC (il controllore dei mercati finanziari USA) si sta interrogando su quali basi vengono effettuate le valutazioni delle aziende (per la cronaca,  rischia di essere un dèja-vu:  il valore che è stato attribuito a molte dot-com, spesso legato al mitico numero di click attesi,  si è poi sciolto come neve al sole).

La terza:  battiamo il ferro dove siamo bravi. Per l’Italia, la questione di fondo è e rimane quella di iniettare imprenditorialità nei contesti in cui abbiamo carte da giocare e in cui possiamo crescere. Un esempio, tra i tanti possibili. Pochi giorni fa,  Dario Di Vico osservava che “abbiamo bisogno di individuare in tempi ragionevoli una via italiana all’industria 4.0”, partendo dall’analisi delle migliori esperienze internazionali per poi “cercare di ragionare sulle caratteristiche del nostro sistema delle imprese e della sua auspicata evoluzione”. Non è forse una sfida imprenditoriale? Lo è, a tutti gli effetti:  bisogna investire risorse, sviluppare nuove competenze, innovare nei processi,  mettere a punto risposte originali per mercati in continuo mutamento. Sono temi di corporate entrepreneurship, cioè di imprenditorialità interna alle imprese, che chiamano in causa l’imprenditore, i suoi collaboratori, le nuove generazioni in ingresso. Sono temi che coinvolgono intere filiere produttive, destinate a cambiare pelle nella interazione tra i diversi attori e nei modelli di leadership. Sfida alta, di sistema, ma pur sempre sfida imprenditoriale.  Non siamo la  Silicon Valley, anche  perché non abbiamo le tecnologie e  i soldi che girano lì. Guardiamo l’erba del vicino, impariamo quel che c’è da imparare ma teniamo alta la tensione sulla nostra cara old economy, lavorando intensamente, a tutti i livelli,   perché viva una nuova primavera di energie e di progettualità imprenditoriale.  

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