Quando li vedi all’opera tutti insieme, si comportano come una vera squadra. E se capita di incrociarli all’ora di pranzo, mentre vanno a mangiare alla mensa dell’Università, sembrano “Gli intoccabili” di Brian De Palma. Camminano schierati in linea, con il loro leader al centro, parlano dei loro lavori, consapevoli che l’unità di cui fanno parte, quella degli studi interdisciplinari per l’economia sostenibile, è una vera avanguardia votata al compito più difficile: cambiare la cultura e i paradigmi che hanno informato fino ad ora l’economia e la governance dei territori.
Mark Brusati, Pierdavide Montonati, Luca Maffioli e Stephane Jedrzejzak rispondono agli ordini del professor Dipak Raj Pant che prima di approdare alla LIUC – Università Cattaneo di Castellanza ha girato mezzo mondo e insegnato in molti atenei, stranieri e italiani.
 

All’interno della LIUC – Università Cattaneo opera l’unità di studi per l’economia sostenibile guidata dal professore Dipak Pant: “I luoghi periurbani e rurali sono riserve di grande futuro”

Professor Pant, che cosa fate nel vostro dipartimento?
Questa squadra ha due funzioni: una, di tipo didattico, l’altra, di ricerca applicata. Per quanto riguarda la prima, andiamo in aula ad insegnare agli studenti della specialistica sistemi economici comparati. Cosa funziona, cosa non funziona, quali sono i sistemi più resilienti come si sono evoluti e come sono cambiati. L’altra parte della didattica è il corso di economia sostenibile, cioè come può un sistema economico essere prosperoso e mantenere la sua competitività preservando l’ambiente e il valore che esprime il contesto di riferimento. La seconda funzione è quella di fare ricerca applicata, per elaborare soluzioni concrete a livello politico, gestionale, tattico e operativo. Insomma, non solo parole, libri e teoria, ma anche veri esperimenti”.

Voi chiedete a chi ha la leadership di fare un salto culturale. Non è un compito semplice soprattutto con i politici.
“Con gli imprenditori è più facile perché hanno il senso compiuto del loro ruolo. Con i politici dipende dal livello, funziona di più sul locale perché un sindaco è rappresentativo della propria comunità e opera in una dimensione di rapporto personale. Invece, a livello nazionale la politica è spesso marketing senza prodotto. Se chi ha la leadership di governo facesse della sostenibilità il proprio asse strategico, allora riuscirebbe a declinarlo anche in termini reali, riposizionando l’intero Paese”.

Come viene percepita la sostenibilità?
“Per noi è una leva fondamentale per la competitività. Invece i territori e le organizzazioni spesso la vivono come un costo o un problema. Se parliamo di imprese, in particolare di chi distribuisce prodotti di massa, è più facile inserirsi in un discorso etico. Lo stesso non si può dire ad esempio per un’acciaieria che fabbrica tubi per altre aziende, in quanto non ha un posto nell’immaginario collettivo, se non per le sue ricadute negative. Il caso dell’acciaio è un paradosso, in quanto è un materiale che è tra i più riciclabili in assoluto, ma viene percepito come un business sporco e brutto. Abbiamo lavorato per un anno con la community di riferimento per una visione di lungo periodo da qui al 2030. Ecco, noi ci occupiamo anche dell’analisi della sostenibilità di queste imprese”.

 

 

La fortuna dei piccoli luoghi italiani sta anche nella decentralizzazione delle attività imprenditoriali, al contrario di altri Paesi dove industria e urbanità sono un unico blocco

Quali sono i vostri filoni di ricerca applicata?
“Il progetto “Bussola” dà un orientamento nel medio e lungo termine al livello politico, sociale e imprenditoriale, perché a tutti serve una bussola; il programma “Terre marginali”, sia nel senso geografico, cioè luoghi impervi, che di una ruralità dimenticata, si interroga se questi luoghi possano essere riserve di futuro. Noi crediamo che i luoghi periurbani e rurali abbiano un grande futuro, perché l’Italia, a differenza di altri paesi europei, dove industria e urbanità sono un unico blocco, non è centralizzata. In Italia la manifattura è piccola, diffusa, poliedrica e collegata con la comunità”.

Ma la dimensione d’impresa è un problema?
“No, purché non perda un orizzonte temporale medio-lungo e non si limiti a un tatticismo operativo che potrebbe portare a una discontinuità pericolosa e quindi far morire le imprese e impoverire il territorio. Noi spingiamo le organizzazioni ad avere una visione più lunga e a riflettere sulla propria condizione. Avere visione significa avere un ruolo proattivo e non solo reattivo che è il limite del piccolo. È la stessa logica che informa le piccole comunità”.

Quanto conta il contesto in questa nuova visione?
“Il territorio è un contenitore con diverse imprese di diversi settori merceologici e il clustering è il nuovo orizzonte a cui deve guardare il vecchio distretto monotematico. Il clustering deve puntare a un’intersettorialità a tutto spiano e il suo fondamento emotivo è la ‘terra di cuore’, cioè il mio luogo, la mia dimora, dove sono cresciuto, dove lavoro e metto su famiglia, dove ho prosperato e anche dove verrò sepolto quando muoio.. Il contesto della vita viene purtroppo completamente dimenticato, mentre è da lì che si rinasce. Il rinascimento inizia nel momento in cui chi ha la leadership riversa la bellezza nel pubblico anziché tenersela nel privato. La bellezza vince sempre, non perde mai”.

Professore, che cos’è oggi la bellezza?
“Il bello deve tener conto che siamo 7 miliardi di persone e dunque è la riarticolazione del luogo del cuore in chiave ecologica, salutare, economica, efficiente dal punto di vista logistico e della connettività, in grado di garantire una mobilità multiforme. È un luogo caratterizzato da una grande vivacità culturale. È l’espressione compiuta di una diversificazione evolutiva”.

 

 



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