Non-era-la-Tintoria-Zerbi-a-inquinare-l’Olona

‘‘Non eravamo noi ad inquinare l’Olona e ora ci sono degli atti giudiziari che lo confermano in maniera definitiva”. È rimasta soffocata per cinque anni la frase che oggi può esprimere Davide Cova, ex amministratore della Tintoria Zerbi di Lonate Ceppino. Un’attività manifatturiera storica del Varesotto che nel 2013 finì sotto i riflettori delle autorità preposte al controllo degli scarichi nel fiume Olona. Dopo dei rilevamenti venne formulata l’ipotesi che fosse l’azienda allora guidata da Cova a essere causa di alcuni valori delle acque fuori dai limiti, nonché delle schiume visibili ad occhio nudo. Una teoria a cui l’azienda si è da subito opposta. “Abbiamo – ricorda Cova – sempre contestato il punto dove venne prelevato il campione di acqua (alla bocca di scarico situata ben al di sotto del livello del fiume Olona e non al pozzetto ispettivo come prescritto per legge) e abbiamo sempre fatto notare come anche dopo la chiusura per tre mesi dell’attività, imposta a seguito di quei controlli, le schiume non scomparvero”.

 

L'apertura di un'inchiesta

Sta di fatto che venne aperta un’inchiesta e Cova ricevette un avviso di garanzia: “Ciò fece di me un indagato, ma mai un imputato, come scrissero invece alcuni organi di stampa locale”, precisa l’ex imprenditore. “E men che meno un colpevole!” A fianco alla vicenda giudiziaria, come spesso accade, si aprì anche una campagna stampa non proprio lusinghiera per la Tintoria Zerbi. “Vogliamo riscattare la nostra immagine e i valori con i quali abbiamo sempre lavorato”. Davide Cova, infatti, in qualità di amministratore della Tintoria Zerbi, non è mai stato rinviato a giudizio come scrissero alcuni giornali. Anzi, dopo la chiusura delle indagini, la presentazione di una propria memoria difensiva e l’interrogatorio alla Procura della Repubblica di Varese, il Pubblico Ministero chiese al Giudice per le Indagini Preliminari l’archiviazione. Era il 20 giugno del 2016. Nel documento di richiesta di archiviazione c’è un passaggio molto chiaro che ne attesta le motivazioni: “La parte (ossia i rappresentanti della Tintoria Zerbi indagati: Davide Cova e il suo consulente ambientale ndr) ha dimostrato che la presenza di schiume nel fiume Olona è notoria e che non vi è comunque prova che tale accadimento sia causalmente riconducibile alla propria attività, anche in relazione alla questione di cui al capo a) connessa alla attribuibilità certa dello scarico alla predetta società”. Nel documento presentato dal Pm al Gip, con riferimento al prelievo del campione delle acque, c’è anche scritto che “il dato raccolto è ambiguo”. Così come viene anche smontata la contestazione della presenza del rame negli scarichi della Zerbi.

 

 

Una battaglia durata anni

Cova nel rileggere le parole messe nero su bianco dal Procuratore trova la conferma della sua battaglia durata anni. Ma più che sollievo c’è tanta amarezza: “Non vi è comunque prova… Non poteva esserci. Avevamo da poco investito nel nostro impianto di depurazione circa 2 milioni di euro. A cui bisogna aggiungere gli 1,7 milioni di costi negli ultimi cinque anni di gestione. La nostra acqua presentava valori comunque non tali da giustificare una chiusura aziendale”. Una verità che pochi vollero ascoltare. Ora però lo stesso Gip in data 26 giugno 2018 ha predisposto l’archiviazione. Per prescrizione, è vero, ma richiamando esplicitamente il documento del Pubblico Ministero che ne chiese la restituzione dei documenti e la chiusura del procedimento senza rinvio a giudizio già due anni prima. 
“La storica sensibilità ambientale della Tintoria Zerbi - racconta Cova - era testimoniata da 35 anni di attività depurativa, sempre sotto stretta osservazione e sempre sottoposta a diversi controlli durante l’anno. Non abbiamo, prima dei fatti contestati, mai avuto degli scarichi oltre i limiti tabellari, mai alcuna questione. Quando il depuratore aveva dei problemi, venivano risolti tempestivamente, compatibilmente coi tempi tecnici necessari”.

 

 

Oggi la Tintoria Zerbi non esiste più

Il vero problema è che, però, oggi la Tintoria Zerbi non esiste più. È in procedura concorsuale. “La chiusura forzata di circa tre mesi dopo l’accertamento inevitabilmente creò i presupposti per quanto sarebbe poi tragicamente successo. Tre mesi di stop vollero dire per la società sostenere, solo tra paghe e contributi, costi per 1,6 milioni di euro, senza poter, dall’altra parte, produrre e dunque vendere e incassare alcunché”. A casa rimasero così 81 dipendenti. “Eppure - ricorda Cova - il sistema bancario aveva dimostrato di credere nelle nostre potenzialità con un finanziamento, concesso solo pochi mesi prima dei fatti, nell’ambito di un’operazione di ristrutturazione del debito, in un periodo di pieno ‘credit crunch’ e nonostante la crisi del settore tessile. Avremmo potuto farcela, avevamo buone prospettive di miglioramento”.

 

“Ancora nel 2016 ci accusarono con lettere anonime di sversare liquami nell’Olona, quando in realtà l’azienda era già in procedura concorsuale e chiusa da tempo”. Ricorda ancora Cova per sottolineare l’accanimento generale nei confronti della sua azienda. 
“Vogliamo riabilitare il nome della Tintoria Zerbi - chiosa Cova - che ha operato per 80 anni dando lavoro nel tempo a centinaia di persone e contribuendo alla costruzione di un benessere diffuso sul territorio. Perché quello che è capitato a me, alla mia azienda e ai miei collaboratori non accada più”.  



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