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Alla Pinacoteca cantonale Giovanni Züst di Rancate, in Canton Ticino, è in mostra l’arte della giovane artista svizzera, scomparsa prematuramente a soli 23 anni, insieme alle opere delle colleghe donne che onorarono il suo tempo. Tra cui i fiori di campo di Adelaide Borsa, i ritratti di Irma Giudici Russo e i lavori di Margherita Osswald-Toppi, che ispirò lo scrittore Hermann Hesse per uno dei suoi migliori racconti, “L’ultima estate di Klingsor”

Breve la vita di Sylva Galli. A soli 23 anni la malattia spezzava il filo d’oro d’una esistenza vissuta in pienezza di spirito, di genialità, di intelligente attenzione al mondo prediletto. Quello dell’arte, della creatività esercitata partendo dallo sguardo sul cerchio familiare fatto di oggetti domestici, di ritmi lenti e sereni, di visioni e ambienti rassicuranti. Ma dove sarebbe potuta arrivare la linfa limpida e cosciente di quella creatura nata per raccontare, coi colori e i flussi calmi degli oli sulla tela, però densi e volitivi se la mente o il cuore, più che la mano, lo richiedeva? Ci sono, nelle sue opere di ragazza colta e attenta alle vicende artistiche, tutti gli umori e le passioni, il dolore e la gioia degli artisti da lei avvicinati, studiati, amati. O spiati con la speranza (ma guardando le sue opere oggi possiamo dire certezza) di strappare segnali preziosi. Furono tutte indicazioni utili ad accompagnarla in quel percorso docile, ma tenace, di arte e di vita che s’aspettava. Splendida e giusta scelta quella della Direttrice della Pinacoteca Züst di Rancate, prima di lasciare il suo museo, dopo anni di rassegne di grande impegno e passione, di ricerca e altissima qualità, di dedicare la sua ultima mostra a una giovanissima, ma già notevole artista, falciata da un destino impietoso. 

Crudele tanto più se, percorrendo le sale davanti alle sue belle tele o a un’affascinante testa femminile in gesso da Sylva finemente modellata, ti interroghi perché mai si erano dovuti spegnere per sempre, così presto, quei colori, quegli azzurri veli sulle spalle nude, quelle nuche di donna, in piedi davanti allo specchio. E perché dover lasciar languire per sempre le esplosioni matissiane di fiori nei vasi smaltati in cobalto delle sue opere? Ci sono Monet e Toulouse-Lautrec, ma anche Renoir e Degas, nelle vibrazioni dei veli trasparenti, nei corpi femminili, quasi da ballerina, animati di un garbato vigore, ma schermati da gentilezza, raccontati da Sylva. E c’è anche il nostro solitario Morandi che molto doveva piacerle: per la sua arte, come dimostrano alcune belle nature morte della giovane dichiaratamente morandiane. Soffermandosi sul suo quotidiano, simbolico universo di oggetti comuni, per Morandi “nulla era più surreale, nulla più astratto del reale”. E per quella prudenza di sguardi umani che lo portava a osservare, come Sylva anche faceva, il mondo esterno dalla finestra. Non aveva il coraggio, la giovanissima Sylva, di esporre le sue tele e gli altri lavori in cui si è cimentata. Non partecipava alle rassegne artistiche ticinesi, dicendo di non sentirsi pronta per il giudizio del pubblico. Tutto partiva in realtà da una coscienza di donna che si misurava coi massimi livelli, che conosceva il meglio dell’arte che l’aveva preceduta o le scorreva vicino, perché l’aveva studiata e avvicinata negli studi compiuti. Finché anche la guerra si era messa di traverso.

 

 

Eppure, la produzione che si vede in mostra era già ampia e varia e capisci che quei quadri a lei noti, quei pittori prima derisi, poi acclamati nei musei del mondo, ma anche quelli già più vicini a lei nella contemporaneità, li aveva già fatti passare tutti. Accogliendoli nel suo cuore e nei suoi occhi, assimilandoli in certe pennellate cariche di prodigiosi indizi coloristici che sarebbero piaciuti persino all’esigente Vincent. Sì, anche Vincent le è vicino, nella decisa volontà di lei di aggiungere pennellata a pennellata, lavoro a lavoro, tono su tono. Ogni giorno e ogni notte. E ogni solco è un pensiero, una dedica all’occhio che guarda, una preghiera; con lo sguardo fisso a quell’universo stellato e irraggiungibile che, come sapeva bene lei, anche Vincent van Gogh aveva osservato nelle notti d’attesa dalla sua camera di Arles. Ti consola allora sapere come in quel lampo abbagliante di vita, Sylva avesse già visto e compreso il meglio, non sola, ma in compagnia degli artisti prediletti. La sua tavolozza era per lei, non solo nei momenti più alti, uno strumento musicale: arpa divina, per elevarsi ad altezze di rara qualità. Se le furono apparentemente precluse, secondo alcuni spicci giudizi, in realtà le aveva toccate già: e stavano in quel suo paradiso terreno del fantasticare di mano e di cuore e di colori, pur nell’apparente ristretto spazio domestico. Dove ritrae la fisicità longilinea della madre e del padre affacciati al balcone, di se stessa seduta: la minuta figura, l’abitino da casa con le maniche celesti a sbuffo, lo sguardo acuto, le lunghe gambe accavallate sulla sedia di paglia.  

Non per nulla alcune sue opere sono state accolte a Palazzo Pitti a Firenze, alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma e nel Museo d’Arte della Svizzera Italiana di Lugano, quale dono della famiglia. La maggior parte dei lavori sono, invece, di proprietà della stessa che le ha distribuite tra i suoi membri e si è data il nobile compito di onorarle e custodirle per sempre. Sylva era nata a Bioggio nel 1919, da Battista, dirigente bancario e da Maria Angela Stoppa, appartenente a una benestante famiglia contadina. Scrisse di lei il sensibile critico e artista vigezzino Giuseppe de Magistris: “Non era, anche a detta dei genitori, che se n’erano accorti ben presto, una ragazza comune. Garbata ma decisa, finiti gli studi liceali rivelò subito il suo temperamento artistico, raro soprattutto per la sicurezza con cui si sviluppò in seguito. Un giorno, infatti, terminati gli studi ginnasiali, la ragazza dichiarò chiaramente che intendeva studiare disegno. Fu accontentata”. Si diploma così alla scuola cantonale di Lugano, poi frequenta il Technicom di Friborgo e anche l’Akademie Wabel di Zurigo, una scuola privata di nudo e di paesaggio aperta dall’artista Henry Wabel.  

 

 

La famiglia, già privata dalla morte precocissima dell’unico figlio primogenito, lascia fare, dedicandole ogni attenzione. Ma si accorge al ritorno a casa che la sua salute pare minata, forse per il freddo e le privazioni sopportate in quel suo intenso fare. “Io vedo nei suoi lavori – scrive il cugino Antonio Galli – piuttosto il frutto di un continuo lavorio interiore, quasi presagisse di non poter perdere tempo, di dover vivere intensamente ed esprimere i propri sentimenti attraverso le opere che ci ha lasciato”. Fu vista fin dagli anni ‘60 come simbolo di una femminilità autentica, libera in se stessa, piuttosto che nella dimostrazione propagandistica e sbandierata di un femminismo di facciata.  Anche per questo alle ottime opere di Sylva si affiancano nelle sale opere di altre artiste, a volte anche scrittrici e autrici di testi dedicati alle arti o alle biografie femminili, alcune dedite ad una pittura non professionale, altre, anche precedenti cronologicamente la vita di Sylva, molto stimate artisticamente. Si vedano i fiori di campo di Adelaide Borsa, un pastello su carta di inarrivabile leggerezza e in contrapposizione quelli vivacissimi di Rosetta Leins o i sublimi ritratti di Irma Giudici Russo, come il “Pastorello” e, incredibile per profondità e trasparenze, “Il vestito a scacchi” (1935). La giovane coppia di Margherita Osswald-Toppi rimanda, anche per l’atmosfera dei caldi colori usati, ad Hermann Hesse, che si ispirò alla donna ritratta per uno dei suoi migliori racconti “L’ultima estate di Klingsor”.  



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