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A tu per tu con l’artista toscano, Mariano Pieroni, trapiantato ormai da anni a Solbiate Arno, esponente di un nuovo movimento pittorico e scultoreo che, in piena era dell’immagine, va alla scoperta della dimensione interiore ed esteriore di tutti noi, “Gli scoppiati”. Tra entusiasmo e speranza. Ma anche delusione e confusione tra realtà e fantasia

E’ nato a Barga nel ‘37, il 17 giugno e della Toscana rivela, oltre all’accento inconfondibile, le doti di chi è venuto al mondo lì: curiosità, ironia, voglia di sognare ma anche di fare, attenzione e amore per il bello e l’arte e per la madre terra. La ama da sempre in spirito quasi francescano e con impegno ambientalista ante litteram. Non è figlio d’arte Mariano Pieroni. Ma d’arte vive. Di disegno, pittura, grafica e ceramica, soprattutto di scultura. Attività che lo ha spinto per una vita da una mostra all’altra: oltre 120 in Italia e all’estero.

Vogliamo partire dall’inizio? Com’era la sua famiglia?
Era una famiglia patriarcale contadina. Mio padre era calzolaio, ma coltivava anche la terra e io ero parte di un’allegra e numerosa figliolanza, eravamo 4 fratelli e poi c’erano nonni e zii attorno a noi.

Negli anni della guerra si dovette sfollare a Livorno. Erano anni difficili.
Ho il ricordo di nonno Ettore che rientrò a piedi dalla Linea Gotica. Ma lì mi ero potuto avvicinare a certe opere che mi appassionavano. Eroi mitologici e cavalli di statue e monumenti erano incontri della mia quotidianità di bambino. Io li fissavo nella memoria e li copiavo.

Ha imparato quindi da subito a riferirsi all’arte degli altri. Poi ebbe due fondamentali incontri, con l’artista italo americano Agostino Nivola e con Pietro Annigoni, giusto?
Sì, ho rivelato in fretta, lo posso proprio dire, la mia attitudine per il disegno. Già da bambino gli insegnanti a scuola avevano spiegato ai miei genitori che avevo delle doti spiccate. Nel 1950 mi toccò la fortuna di un incontro occasionale con Nivola. Lui era giunto in Italia dagli Usa per qualche mese, ebbi modo di diventare un suo giovanissimo amico e seguirne gli insegnamenti a Villa Pozzolini, a Quercianella. Un grande onore, avevo appena 13 anni. Sempre per lo stesso motivo fui accolto ancora molto giovane a Firenze, nella bottega di Annigoni, accompagnato dalla buona raccomandazione dei signori da cui lavorava mio padre. Avevano anche loro capito che poteva essere quella la mia strada. Eravamo una squadra di 15 o 20 allievi che arrivavano da ogni parte del mondo. Annigoni mi faceva fare di tutto, mi insegnava ogni tecnica e segreto. Aveva grandi capacità di didattica e ci faceva disegnare fino a farci penetrare nei segreti della forma.

Che ricordo le è rimasto di Annigoni?
Era un uomo curioso, colto e appassionato del suo lavoro, un uomo generoso e paterno. Lo si ricorda per lo più come ritrattista, ma era anche un grande paesaggista. Poi nel ‘53-‘54 andò in Inghilterra per il ritratto della regina Elisabetta. E lavorò sempre più da ritrattista. Nel tempo ci si perse di vista, ma i suoi insegnamenti sono rimasti. Come quelli dei miei primi maestri Ugo Serravalle e Emanuele Zambini. Avrei seguito poi anche i corsi di Giorgio Settala all’Accademia del Nudo di Firenze e di Silvio Polloni. Nei miei anni fiorentini frequentai anche gli studi di Rosai, Grazzini e Conti. E la galleria Numero di Fiamma Vigo.

Poi la sua vita, era il ‘66, ebbe uno scarto...
L’alluvione mise in ginocchio Firenze, ma anche la campagna che dava da mangiare alla mia famiglia. Così ci spostammo al Nord. Seguendo la mia passione per l’arte ceramica, io fui chiamato in Belgio, a Liegi, dove lavorai per la ditta Junker e realizzai un intero campionario che piacque molto. Al rientro in patria l’anno seguente, dopo questa esperienza, mi fermai con la famiglia a Solbiate Arno, dove risiedo ormai da sempre con mia moglie e i miei figli. Mi piace stare in provincia, posso lavorare e pensare in serenità, con la coscienza che lavoro non solo per me stesso. Avverto l’impegno, la responsabilità e il rispetto del rendere conto di quanto faccio anche agli altri, in un tempo storico condiviso.

La sua biografia racconta che le piaceva incontrarsi con gli amici per indagare sul mondo e su quegli anni carichi di promesse. Ha legato la sua ricerca al Dimensionismo: ce ne può parlare?
Frequentavo in Lombardia molti movimenti storici. E sono l’ideatore del Dimensionismo, del quale ho dissertato coi colleghi in tante occasioni e per diversi anni. Era la fine degli anni ‘60, il mondo stava cambiando, riflettevo molto sull’influenza esercitata dal mezzo televisivo, sull’importanza dell’immagine che cominciava già allora a cambiare la percezione della dimensione interiore che ciascuno ha di se stesso nel panorama sempre più ampio del mondo. Oggi, con il web, dimensione interiore ed esteriore si affrontano e raffrontano in una competizione che accende entusiasmi e speranze, che porta a concreti obiettivi ma anche a spersonalizzazione, delusione, confusione tra realtà e fantasia.

Chi c’era con lei a riflettere e discutere?
C’erano gli artisti amici Silvio Zanella, Albino Reggiori, Piero Cicoli, Giancarlo Pozzi, Pasquale Martini e tanti altri. Baj venne a Varese a vedere una mia personale alla galleria La Bilancia di Luigi Barion, dove esponevo. Avevo conosciuto anche Morandini che apprezzavo e apprezzo molto. Con Zanella, storico fondatore del Premio Città di Gallarate, ero in grande amicizia, ho esposto più volte alla Gam (nel 2000 il successo di Natura Artifiziata n.d.r.) e poi al Ma*Ga anche con la figlia Emma, sua degna erede nella direzione della Galleria: ho portato a Gallarate opere pittoriche e sculture, alcune per la collezione permanente, in primis le amate ceramiche, i presepi e poi i soggetti vari che ho presentato in Italia e anche all’estero.

E poi arriva il Ciclo dei Plasticoni, li ha portati anche a Radicondoli nel 2008, a grandezza naturale e a Milano nel 2009, in Corso Vittorio Emanuele in occasione del ventennale della caduta del Muro di Berlino.
Arrivato qui al Nord, ho iniziato a interessarmi da subito all’ambiente. Non mi piaceva l’incuria in cui versavano i fiumi, con tanti amici ho cominciato a raccogliere materiali abbandonati, si trovava soprattutto plastica. Mettevamo la mascherina sulla bocca, indossavamo gli stivali e via. Mi impressionavano anche le carcasse spellate degli animali morti, buttati lì come in una fossa. Mi è venuta così l’idea di dar vita ai “Plasticoni”, quadri o sculture realizzate soprattutto con i rifiuti plastici presi dai fiumi. Sono creazioni in cui l’animale, defraudato dall’uomo del suo ambiente, è di nuovo rimesso al centro dell’attenzione.

Mariano Pieroni: “Nel 1950 mi toccò la fortuna di un incontro occasionale con Nivola. Lui era giunto in Italia dagli Usa per qualche mese, ebbi modo di diventare un suo giovanissimo amico e seguirne gli insegnamenti a Villa Pozzolini, a Quercianella”

Scorrendo uno dei cataloghi, opere ceramiche di estrema bellezza, dedicate al Ciclo del Vento, con visi in porcellana bianca frustati e frammentati da una forza invincibile, Pieroni sembra aver preconizzato anche questo momento sospeso del Coronavirus. Leggiamo: “Lo scatenarsi della forza della natura turba la nostra illusione di ‘onnipotenti animali tecnologici’ ponendoci di fronte quasi inconsciamente alla nostra drammatica realtà, al tempo che scorre implacabile, alla nostra debolezza e fallimento... finché il bel castello di carte crolla miseramente e ci troviamo lì, a tu per tu col senso della fine, a doverci chiedere che cosa stiamo facendo della nostra esistenza e quanto tempo ci resta”.

Su questo fondamentale tema è ora in attesa di portare le sue ultime opere, il ciclo “Gli Scoppiati”, in una mostra londinese che si terrà a partire da luglio. Prima di un’altra tappa espositiva nella bella capitale finlandese. Per Solbiate Arno è prevista invece una grande rassegna che investirà luoghi e spazi aperti dell’intera cittadina. Gli scoppiati siamo proprio tutti noi (sarà questo il messaggio che arriverà fino a Londra ed Helsinki) che non riusciamo più a scindere tra realtà e dimensione virtuale, tra voglia di correre e bisogno di silenzio. È quel silenzio che il nostro artista continua a prediligere e consigliare, forse perché gli è rimasto dentro dalla sua terra natale. Terra tanto cara anche al poeta Pascoli che la cantò in l’Ora di Barga. E ne fece il suo luogo dell’anima: “Il mondo mi spaura/e ho scelto la valle del bello e del buono/e dove il tempo non corre”.

      

Mariano Pieroni   

 



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