I tedeschi hanno circa 5.000 miliardi di risparmio che, a causa dei tassi tenuti bassi dalla Bce per rilanciare l’economia, di fatto sono da tempo infruttiferi. E, si sa, che i risparmiatori, prima o poi, divengono elettori

Forse conviene approfittare di questo momento di calma apparente (prima che la Commissione Europea torni ad esaminare l’evoluzione dei nostri conti pubblici) per fare qualche considerazione sulle sfide che attendono le imprese e le banche italiane. Sfide che, ormai è certo, si concretizzeranno in uno scenario non certo facile. Infatti, mentre le previsioni della Commissione europea evidenziano un Pil dell’Area Euro in crescita dell’1,1% nel 2019 e dell’1,7% nel 2020, le previsioni di crescita dell’Italia appaiono decisamente più preoccupanti. Più in particolare, per il 2019, si va dal -0,2% dell’Ocse al + 0,2% di tutti le altre istituzioni, Governo compreso. Poco meglio il nostro Pil nel 2020. Come se non bastasse, il tutto in un quadro generale permeato da una “incertezza pervasiva e da una persistente debolezza” come afferma la Bce e sottoposto a forti incognite quali le tensioni tra Usa e Cina a causa dei dazi, la crisi delle economie
emergenti, la “hard Brexit”. Dunque, sul fronte della crescita l’Italia appare isolata perché cresce decisamente meno degli altri Paesi per colpa dei pesanti fardelli strutturali quali la scarsa produttività, l’alta incidenza del costo del lavoro e la pesante tassazione delle imprese. La conseguenza diretta è che, mentre noi avremmo ancora bisogno di manovre decisamente espansive, gli Organismi europei si muovono, invece, con i piedi di piombo al fine di evitare l’insorgenza di pericolose bolle. Ad esempio, le nostre imprese dovranno fronteggiare il descritto scenario regressivo senza poter più contare sul supporto garantito fino ad oggi da interventi straordinari della Bce quali l’LTRO ed il TLTRO. Si tratta di finanziamenti a tre e quattro anni, a tassi contenutissimi, che hanno decisamente sostenuto il tessuto imprenditoriale ancora in debito di ossigeno per il prolungarsi della crisi. E se un nuovo programma TLTRO potrebbe essere varato, seppure con condizioni decisamente meno interessanti rispetto ai precedenti, è altamente improbabile che venga varato un nuovo programma di Quantitative Easing. Attraverso questo strumento, la Bce dal marzo 2015 al dicembre 2018, ha acquistato titoli ed obbligazioni pubbliche, prevalentemente dalle banche, per 2.600 miliardi di cui ben 365 miliardi in Italia. Con la liquidità ricavata dalla vendita dei titoli alla Bce gli istituti di credito hanno potuto finanziare a medio termine gli investimenti delle imprese a tassi molto contenuti o addirittura negativi accelerando così l’uscita dalla fase più nera della crisi. Il problema per le nostre imprese è che questi stimoli monetari stanno progressivamente venendo meno proprio in presenza dell’affacciarsi di un nuovo periodo buio. Infatti, dal 1° gennaio 2019 la Bce ha concluso la fase degli acquisti dei titoli pubblici limitandosi a ricomprare quelli in scadenza. E questo perché gli stimoli di natura monetaria non possono essere prolungati oltre determinati limiti in quanto tendono a generare effetti collaterali.

Il credito deteriorato in pancia alle banche italiane ammonta a circa il 10% degli impieghi. Una quota ancora molto elevata rispetto ad una media europea del 3,5%. Come dire: i numerosi sforzi fin qui fatti non bastano

Più in particolare, i tassi tenuti a livelli bassissimi dal programma di acquisti della Bce, nel lungo termine, tendono ad indebolire la redditività delle banche generando così un circolo vizioso che impedisce agli istituti di sostenere adeguatamente il tessuto imprenditoriale. In realtà esiste una motivazione anche più pragmatica che spinge la Germania ad opporsi alla continuazione del Quantitative Easing. I tedeschi hanno circa 5.000 miliardi di risparmio che, a causa dei tassi tenuti bassi dalla Bce per rilanciare l’economia, di fatto sono da tempo infruttiferi. E, si sa, che i risparmiatori, prima o poi, divengono elettori. Da non sottovalutare, infine, che in Italia, i problemi delle imprese sono legati a doppio filo con i problemi delle banche. Infatti, il nostro sistema bancario, pur avendo fatto più sforzi di qualunque altro Paese per lo smaltimento del credito deteriorato, ha ancora un fardello di Npl (Non Performing Loans) decisamente molto pesante e pari a circa il 10 % degli impieghi. La media europea si attesta attualmente al 3,5% circa (Francia 3%, Germania 2%, Olanda 2%). Il problema è che, di conseguenza, il nostro sistema bancario è più esposto rispetto ai partner europei alle nuove normative di vigilanza che tendono ad imporre a tutti i Paesi uno “smaltimento veloce” del credito deteriorato. Le linee guida della Bce che richiedono alle banche di coprire integralmente con accantonamenti il “nuovo” credito deteriorato in 7 anni se garantito ed in 2 anni se privo di garanzie; le nuove norme sugli sconfinamenti continuativi oltre i 90 giorni (past due); la normativa sulle misure di tolleranza concesse dalle banche alle imprese in difficoltà finanziaria (credito Forborne), vanno tutte nella stessa direzione, chiedendo alle banche sempre maggiori accantonamenti e sempre maggiore patrimonio.

Peccato che esiste una regola aurea che recita “ogni nuova norma di vigilanza sul credito deteriorato colpisce le banche alle 11 del mattino, ma si ripercuote sulle aziende alle 3 del pomeriggio”. Infatti, se è vero che queste norme rendono più resiliente il sistema bancario a possibili shock sistemici nel lungo periodo, è anche vero che colpiscono nell’immediato un sistema produttivo ancora in forte affanno.

 

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