La prima rassegna postuma di Pietro Guccione organizzata dal museo di Mendrisio. Una mostra che racconta la vita dell’artista siciliano, attraverso la sua particolare e privilegiata interpretazione delle onde

Scriveva l’amico Leonardo Sciascia: “La continua sottrazione guccioniana si arresterà solo al cospetto del silenzio”. Parlava di Pietro Guccione, noto pittore siciliano, tra i migliori del ‘900, e alludeva ai suoi sconfinati cieli e mari illiquiditi fino alla trasparenza. Secondo la figlia dell’artista, Paola, il padre era accomunato, come Sciascia, da uno stesso unico desiderio: “Narrare l’essenziale, scavando ogni singola parola o ombra di colore”. Paola è, con Simone Soldini, Barbara Paltenghi Malacrida e Giovanni Giro tra i curatori della retrospettiva (la prima dopo la morte) “La pittura come il mare” dedicata dal Museo d’Arte di Mendrisio all’artista che, proprio lo scorso ottobre, ha terminato il suo esercizio umano e artistico di sottrazione terrena. La mostra comprende 56 opere tra oli e pastelli, tutti capolavori ispirati al mare, perché su quell’unico ma fondamentale tema di Guccione, tra i tanti della sua opera, a Mendrisio si è fatta la scelta di posare occhi e cuore. 

Accanto al percorso umano e artistico, ampiamente documentato da lettere dei tanti amici scrittori (oltre a Sciascia, Enzo Siciliano e Alberto Moravia anche Dino Buzzati, Bufalino, Dante Isella e molti altri) si evidenzia dunque la fondamentale importanza di un ciclo che per l’artista ha rappresentato il culmine dell’intera ricerca di una vita: puntata a un momento finale in cui potesse convergere la sua esperienza umana e artistica. Dove grafica e pittura si fondono in una sintesi felice di tratti e cromatismi essenziali, sublimati al massimo, dove cielo e mare si allineano e sovrappongono, si completano e si abbracciano nell’occhio di chi, per anni, ha imparato a osservare. Nel racconto degli amici e della figlia, Guccione ha osservato il suo mare per quarant’anni: poteva rimanere ore a osservarlo, poi ne riproponeva sulla carta e sulla tela onde e movimenti, sfumature cromatiche, luci e ombre. Più di un suo quadro è nato proprio partendo dall’ombra di una piccola onda che lui vedeva approdare e frantumarsi sulla battigia. Filtrava, non attraverso la macchina fotografica, ma coi propri occhi, naso, cuore, orecchi, gli umori del tempo e delle stagioni e odori, colori, luccichii, mormorii e silenzi della natura. Rientrato in casa, tutto immetteva poi in quelle tele chiare di luce, di tenui trasparenze cromatiche: ottenute con oli o pastelli. Questi ultimi per una esecuzione più immediata, perché la sua mano potesse fermare all’istante il passaggio repentino di movimenti di acqua e vapore in ininterrotta corsa, sopra e sotto la infinita linea dell’orizzonte. 

Nel racconto degli amici e della figlia, Guccione ha osservato il suo mare per quarant’anni: poteva rimanere ore a osservarlo, poi ne riproponeva sulla carta e sulla tela onde e movimenti, sfumature cromatiche, luci e ombre

Nato nel 1935 a Scicli, in provincia di Ragusa, Guccione compie i primi studi d’arte a Comiso e Catania. Lavorerà ben presto come grafico, dopo la morte del padre, in uno studio romano, avendo scartata la possibilità di continuare all’Accademia di Belle Arti della capitale dopo un’insoddisfacente esperienza. Proprio a Roma, da giovane artista, ebbe la fortuna d’incontrare Renato Guttuso (di cui sarà assistente di cattedra in anni successivi) e i pittori neorelisti Astrologo, Attardi, Tornabuoni e Vespignani. Gli anni immediatamente seguenti saranno di lavoro e ricerca insieme, di viaggi e scoperte: si recherà nel Sahara con Fabrizio Mori alla scoperta di pitture e graffiti rupestri. Ma sarà anche a New York dove andrà a proporre proprio i disegni dei graffiti sahariani. Dal ‘63, lasciato il lavoro di grafico, Guccione comincerà a vivere finalmente di sola pittura, che gli permette di scegliere e dirigere la sua vita, proprio come una vela nel mare, là dove gli piace. A tale proposito, nel 1969 costruisce la dimora estiva tra Punta Corvo e la Baia di Sampieri, estremo lembo della Sicilia orientale. Suo indispensabile luogo di vita e lavoro.

E ben presto mette a segno una delle più importanti rassegne della sua vita: la mostra parigina alla galleria Bernard dove viene folgorato dall’arte di Caspar David Friederich. Un punto di arrivo e ripartenza venuto appena dopo la rassegna antologica a Palazzo Diamanti di Ferrara, presentata da Enzo Siciliano e la nuova mostra di New York con testo di Alberto Moravia. Ne seguiranno di sempre più rilevanti tra Milano e Roma, presentate, tra gli altri curatori da Goldi, Calvese, Sgarbi. Amatissimo da questi ultimi come dagli amici intellettuali otterrà, accanto al loro riconoscimento, anche quello dell’ufficialità, concretizzato in numerose onorificenze. 

Ma sul finire degli anni Settanta, nonostante la sua vita impegnata, preferisce tornare al paese natale. Per sempre: le sue ore sono da lì in poi osservazione silente ma laboriosa di luci e colori. “Io voglio fare il mare” dice a un giornalista ed è la dichiarazione di quella voglia di tornare al reale, di mettere da parte in arte ogni tentazione di stravaganze pittoriche o intellettualistiche. Ricorda Soldini in catalogo: “Ad attirarlo era quell’impercettibile differenza di colore che si vedeva all’orizzonte tra la parte bassa di mare e la parte alta di cielo. Cercava di ricreare precisamente quella indefinita linea in lontananza”. 

In un volumetto dal titolo Stesure (2005) l’artista scrive: “Il mare? Cerco di farlo muovere per incontrare il cielo. Ma il senso del cielo è quello dell’immobilità, mentre il mare è la mobilità.  Il mare è la fissità mobile, il cielo è la fissità assoluta. Inconsciamente mi adopero per farli incontrare”. Un lungo impegno quotidiano, quasi monacale, in tuta da lavoro che poteva durare l’intera giornata, per assecondare il lento processo che per lui aveva fine solo nell’incontro, quando il reale e l’ideale si congiungono. Di tanto lavoro rende conto la mostra di Mendrisio, meritevole di aver posto sotto la lente di ingrandimento proprio questo processo, frutto della necessità   dell’artista di ritornare alle radici, là dove la sua vita era originata, su quelle spiagge in cui scorrono millenni di storia. E questa antica storia, sua e del suo mare, lui ci narra. Non a caso il viaggio d’artista, partito dagli uadi asciutti, ritorna e confluisce sulle sponde sicule del grande Mediterraneo, un mare Padre, citato da Jean Clair, suo massimo estimatore che a lui dedicò un memorabile saggio, riproposto in mostra, il cui titolo è stato scelto anche per la rassegna elvetica.

Una mostra da vedere. Si può ben raccontare l’interessante vita di Guccione, come abbiamo fatto, ma non si possono, non si devono, raccontare i suoi quadri. Perché a raccontarli dev’esser la stessa luce che lui ha imprigionato in ogni sua opera spingendola al limite della trasparenza. Bisogna mettersi davvero come l’artista davanti ai suoi quadri, osservare da lontano e da vicino quelle linee d’orizzonte, come “Linee del mare” o “La linea azzurra”, e ancora entrare nelle atmosfere rosate o dorate, nel prodigioso “Luce di scirocco” o ne “La lontananza del mare” (2001-2003), dei suoi cieli, lasciare scivolare lo sguardo sul violetto di “Ondoso di forma vagante” (2008-2009). Perdersi anche nella chiarità tranquillante e infinita di “Luna d’agosto” e riflettere sul quel lembo d’ombra in margine alla grandiosa narrazione pittorica di “Il nero e l’azzurro”, la grande opera del senato della Repubblica italiana esposto in rassegna. “Mare a Punta Corvo”, olio su tela del 2000, è infine tra le più significative citazioni artistiche del suo luogo dell’anima, sintesi perfetta di quel difficile mestiere di pittore del mare. 

Piero Guccione 
LA PITTURA COME IL MARE
Museo d’Arte di Mendrisio
Dall’8 aprile al 30 giugno 
Da martedì a venerdì: 10.00-12.00, 14.00-17.00
Sabato e festivi: 10.00-18.00

 



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