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Il Museo MA*GA di Gallarate, in due mostre parallele, espone la storia e il futuro di un linguaggio che, da sempre, distingue il made in Italy nel mondo. Una rassegna che nasce da un progetto del 2009 di Philippe Daverio e che ora prende forma in un racconto del secondo ‘900 fatto di oggetti, produzione artistica, modernità, casa, riscatto, temi sociali e politici, cultura di massa e innovazioni tecniche 

Saranno ben 5 mesi di dialogo tra arte e design. A proporre l’appuntamento, dal 13 ottobre 2024 al 2 marzo 2025, è il MA*GA di Gallarate. Che ospiterà in contemporanea 2 percorsi espositivi, paralleli e complementari, accolti in un unico allestimento (per la curatela di Parasite 2.0). Lo scopo è di “raccontare la storia e il futuro prossimo di un linguaggio che continua a distinguere l’Italia nel mondo”. Il tutto nasce da un progetto del 2009 che fu caro a Philippe Daverio. Jean Blanchaert, suo amico, ne ha ricordato sempre l’aiuto dato al Museo, bruciato nel 2013: il primo a raccogliere le firme per la ricostruzione fu proprio Philippe. E ora i curatori Emma Zanella, Vittoria Broggini e Alessandro Castiglioni, hanno potuto concretizzare nella mostra “Arte e Design, Design è Arte”, sostenuta da Ministero della Cultura e Regione Lombardia, quello storico progetto rimandato. “Una rassegna visionaria e ambiziosa – sottolineano – che intreccia la produzione artistica, l’oggetto di design e dialogo, da una prospettiva estetica ed etica, col fare artistico della modernità”.

L’esposizione comprende 5 sezioni precedute da una prefazione e seguite da una postfazione, come in un romanzo. Le sezioni non intendono essere sintesi del secondo ‘900 italiano, ma porre una serie di questioni. Perché questa era l’idea di Daverio: il racconto di un cammino in continua evoluzione, intrapreso nel secondo ‘900, maturato attraverso le tante domande e sfaccettature che, in dialogo tra loro, hanno prodotto le trasformazioni del design italiano. Il suo progetto fu scritto con il MA*GA alla fine di un lungo studio sulle collezioni del Museo e sugli artisti che più avevano contribuito a creare liaison significative tra arte e design. Non è un caso che l’Introduzione, a 30 anni dalla nascita della sezione design del MA*GA, apra con un omaggio al saggio di Daverio, “Il design nato a Milano: storia di ragazzi di buona famiglia”. Proprio da quest’opera hanno preso vita le scelte estetiche della rassegna. Ecco allora che ad accogliere il visitatore è una serie di poltrone firmate dai grandi nomi di Giò Ponti, Luigi Caccia Dominioni, Marco Zanuso. Significativo è accanto il ritratto dedicato da Massimo Campigli alla famiglia Ponti. È chiaro che per Daverio il design nasce a Milano, perché nel capoluogo lombardo “ben più che nel Piemonte postunitario o nella Liguria mercantile, una società nuova o borghese si trova a volersi sostituire a quella storica classe agraria e nobiliare che aveva fino ad allora dato il tono del vivere e dell’abitare nei palazzi e nelle ville di tradizione”. Un’evoluzione sociale e politica era in atto. L’industria del Nord Italia, da tessile “s’era fatta nell’ultimo quarto del XIX secolo metalmeccanica e, nel senso più vasto del termine, chimica”.  

Notava il critico che, nonostante tale cambiamento, gli architetti milanesi del tempo, frequenteranno gli artigiani e non l’industria. “Il loro mondo lavorativo fu di poca Pirelli e di tanta Brianza”. Il motivo stava nella loro provenienza da una borghesia ormai consolidata, imparentata con la vecchia nobiltà. La prima sezione della mostra, “Si riparte”, è dedicata al secondo dopoguerra. A un mondo desideroso di riscatto. A prevalere sono ancora le geometrie dell’International Style, che però sembrano farsi più spigolose e appuntite. A raccontare questi anni è il noto servomuto “Cicognino” di Franco Albini, il tavolino tondo in dialogo con la pittura a olio su tela di Emilio Vedova “Urto ‘49”. Ispirata al dramma del conflitto e alla tragedia della guerra, l’opera, di proprietà del MA*GA, fa parte del ciclo delle potenti “Geometrie nere” (dal ‘46 al ’50) di Vedova, caratterizzate da forme scure e pungenti che parlano di violenza e menzogna. Per l’artista lo spazio della tela doveva essere invito al rifiuto del male e a una nuova consapevolezza. Gillo Dorfles con “Immagini Ambigue” e Antonia Campi (si veda il suo originale “Portaombrelli”), nota per l’attività ceramica alla Società Ceramica Italiana (SCI) di Laveno Mombello, portano a loro volta la presenza del Movimento Arte Concreta (MAC) che negli anni ‘50 conduce a forme policrome più libere, pur in un mix di rigore e organicità. 

“Quando i salotti erano bianchi” è la seconda sezione. E introduce già agli anni ‘60, a un modello di casa come spazio in cui rappresentarsi seguendo l’eleganza astratta e spazialista dell’arte coeva. A raccontare è quindi l’arte di Lucio Fontana, con le sue “Attese”, in dialogo con le “Lampade sospese” di Bruno Munari. Spunti di riflessione si aprono “sul rapporto ritmico tra pieni e vuoti, assenze e presenze, oggettualità e immaterialità”. “Dalle libertà personali alle libertà politiche” è il tema della terza sezione. Ci si confronta con un design radicale, siamo sempre negli anni ‘60, che porta a progetti e a dinamiche collettive. Si guarda ai movimenti sociali, in particolare al movimento femminista, traendo ispirazione per un nuovo modo di vivere e abitare. Ne sono esempio i “Moduli componibili” di Kartell, di Anna Ferreri Castelli o le produzioni “Pratone” di Ceretti e quelle di Derossi e Rosso. Si riflette sulla cultura di massa con sempre meno ironia critica e si accolgono innovazioni tecniche nate dall’osservazione di un nuovo modus vivendi. 

Le due ultime sezioni “Gli anni di piombo” e “Milano da bere” sono dedicate, rispettivamente, agli anni ‘70 e al ventennio seguente. Dal buio dei primi, dal terrorismo di casa si punta a una progettazione democratica fatta, come pensava Enzo Mari, di kit, di autocostruzione, ma anche di idee rivoluzionarie. L’utopia è così intesa come sogno perseguibile in ogni campo, tanto più in quello creativo politico, dove può diventare la principale forza progettuale. Lo racconta Ettore Sottsass, con le sue “Metafore” in dialogo con la natura. E, in parallelo con lui, l’Arte Povera di Giulio Paolini e Alighiero Boetti, due grandi artisti che sposano la semplicità della materia.  La “Milano da bere”, deve il titolo a una nota pubblicità dell’Amaro Ramazzotti, guarda a una città trainata dal made in Italy che vince sul mercato internazionale. Si veda la leggendaria poltrona Proust di Alessandro Mendini, che rimanda al passato con occhio nuovo. Ma si noti anche l’ironia che indica un modo più leggero di osservare il mondo e persino l’arte: valga l’esempio di Maurizio Cattelan che fa il verso a Lucio Fontana. Anche il design non è da meno. Alessi, da parte sua, si diverte a trasformare i più comuni oggetti domestici in divertenti pezzi da collezione.  Gli anni raccontati da Chiara Alessi nel progetto espositivo HYPERDESIGN, ideato per il Premio Gallarate edizione XXVII, ci parlano del nostro presente, il XXI secolo. E qui il romanzo, che continua per le prossime generazioni sui temi di ambiente e sostenibilità, sicurezza e lavoro, inclusività e relazione, è illustrato da diversi protagonisti impegnati in un vero e proprio laboratorio aperto. Che comprende designer, collettivi, progetti etici e sociali. Sono Acta Architect, Archeoplastica, CHEAP, D-air lab, Fondazione Tetrabondi Onlus e Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi Roma Tre, Formafantasma, Giacomo Moor e Liveinslums, Internoitaliano, Isinnova, Odoardo Fioravanti, Parasite 2.0, Sex & the City, Studio Folder.  

ARTE E DESIGN, DESIGN È ARTE 

Progetto di Philippe Daverio, a cura di Emma Zanella, Vittoria Broggini e Alessandro Castiglioni

HYPERDESIGN

A cura di Chiara Alessi
Museo MA*GA 
Via Egidio De Magri 1, Gallarate
Fino al 2 marzo 2025
Dal martedì al venerdì, dalle 10.00 alle 18.00. Sabato e domenica, dalle 11.00 alle 19.00 

Main partner: Ricola, Missoni Spa, Saporiti Spa
 



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