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Dalla recente campagna elettorale, una lezione di stile per comunicatori e aspiranti tali. È tutta (in fondo) una questione di stile: se è pur vero che nel mondo della comunicazione “il mezzo è il messaggio”, è altrettanto vero che questo va conosciuto. E anche bene

Il risultato ha messo tutti d’accordo. Non parliamo del voto, ma di un giudizio condiviso sull’uso da parte dei politici dei social network durante la campagna elettorale appena conclusa. La premessa, una sorta di excusatio non petita a difesa della categoria, è che l’ultima campagna è stata una delle più brevi e complesse, anche per la concentrazione nei mesi estivi. Quindi, sorvoleremo su una certa sovraesposizione di volti e nomi, dalla sagra della salsiccia ai post su Facebook. Quello che non è altrettanto giustificabile è l’uso, approssimativo e poco curato, dei canali digitali, in particolare di un social molto frequentato dai ragazzi come Tik Tok.

Sgombriamo un dubbio: il giudizio non è legato alla questione anagrafica dei candidati. Non pensiamo, per citare la caduta di stile dell’influencer Giulia Torelli che ha affermato che “i vecchi non dovrebbero votare”, che gli over 30 non dovrebbero usare Tik Tok. La questione sta tutta nello stile. Se, restando nel campo delle citazioni ma di altro spessore, in comunicazione “il mezzo è il messaggio”, è altrettanto vero che questo va conosciuto bene. La facilità con cui ci si approccia ad uno strumento, può certo dipendere dalla predisposizione legata all’età, ma dipende soprattutto dalla conoscenza del linguaggio o, almeno, dall’umiltà di impararlo. La competenza: quella che un cliente paga fior di quattrini per la realizzazione di una manciata di parole che diventeranno uno slogan pubblicitario, memorabile e iconico. Perché questa stessa non viene richiesta per la strategia su Tik Tok, definito piuttosto ingenuamente un canale di “balletti”?

In un bell’articolo della giornalista Mirella Castigli su Agenda digitale, l’autrice parla di “Effetto cringe” per descrivere il risultato sui più giovani della presenza dei politici online, una presenza che avrebbe portato ad un solo risultato positivo: far parlare di sé sui media tradizionali. Se l’obiettivo, dunque, era il coinvolgimento, le elezioni hanno dimostrato, invece, una certa lontananza dei ragazzi dai contenuti. Ma non vogliamo qui banalizzare: il panorama attuale è complesso e una non comprensione o un distacco dalla riflessione politica è un tema che necessita approfondimento. Quello che il comunicatore dovrebbe chiedersi è come accorciare le distanze con i destinatari anche su nuovi canali.

Quello che conta, come sempre, è continuare a mettersi in discussione. Partire dagli scenari reali, abbandonando quei luoghi comuni che fanno parte del bagaglio del comunicatore “miocuggino”, ma non di un professionista: smettere ad esempio di raccontare che Tik Tok in Italia è il social numericamente più seguito. Imparare da quanto già esiste e funziona per studiare, e sperimentare poi, tecniche e metodi narrativi: le ultime elezioni hanno visto il fiorire di progetti collettivi di racconto politico, giornalistico e non, di alto livello. Prendere coscienza che il mezzo fa la differenza e che quanto raccontato in un bar, non può diventare la pubblicità su un autobus o lo storyboard di un podcast.

Smettere di credere che essere ovunque, in qualunque momento, sia un dogma. E soprattutto puntare sempre sull’integrità, perché sui social i valori appaiono chiari: quale aspettativa si può avere da un candidato che non rispetta il silenzio elettorale? Quale autorevolezza passa da chi usa uno strumento e, insieme, lo svilisce? Quello che forse (ma forse) oggi fa sorridere, un domani potrebbe creare un distacco tra la politica e le nuove generazioni. Evitare che sia così è anche responsabilità del comunicatore. 



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