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L’orbita terrestre è piena di rifiuti. Satelliti giunti a fine vita, stadi di razzi, stazioni spaziali, fino ai più piccoli frammenti e bulloni. Circa 8mila tonnellate di detriti sempre più pericolosi per missioni e astronauti. Tanto che i progetti per creare degli spazzini dello spazio si susseguono. E in prima fila c’è l’Italia

C’è una vera e propria discarica sopra le nostre teste. Stadi di razzi ormai inutilizzabili, satelliti morti ma che continuano a vagare nello spazio e talvolta anche stazioni spaziali che prima o poi precipitano sulla Terra (come la recente Tiangong-1 cinese che si è quasi completamente distrutta in atmosfera il primo di aprile).  E tutto questo è ancora nulla se si pensa anche al materiale molto più piccolo che c’è lassù: bulloni, pezzi di satelliti che si sono scontrati tra loro, materiale staccatosi da satelliti morti e tanto altro ancora.

Secondo una recente indagine dell’Agenzia Spaziale Europea, in orbita terrestre vi sarebbero circa 8.000 tonnellate di detriti spaziali, in pratica il peso di 29.000 oggetti con un diametro superiore ai 10 centimetri, circa un milione di frammenti più piccoli per arrivare a decine di milioni di schegge di un millimetro o poco più. Il 95% di tali oggetti si muove a circa 10 volte la velocità di un proiettile. Sono senza dubbio un pericolo per i satelliti in attività e anche per la Stazione Spaziale Internazionale, che è permanentemente abitata da astronauti. Le collisioni sono possibili (l’ultimo in ordine di tempo è un frammento millimetrico che ha colpito i pannelli solari del satellite dell’ESA Sentinel-1A per fortuna senza conseguenze) e dunque ogni detrito rappresenta un rischio. Spiega Luisa Innocenti, responsabile del Clean Space Office dell’ESA: “Se un detrito, anche uno molto piccolo, colpisse un altro oggetto, lo farebbe esplodere a causa della grande velocità a cui viaggia e l’impatto creerebbe a sua volta un nuvola di nuovi detriti. Quindi anche gli oggetti più piccoli non vanno trascurati”. 

Due domande sono d’obbligo. La prima: “Chi ha creato tutto questo?” Stando ad una classifica prodotta da Space-Track, un’agenzia che si occupa di promuovere la protezione dell’ambiente spaziale attorno alla Terra, gli Stati Uniti sono il Paese che ha prodotto il maggior numero di frammenti celesti, con 3.999 pezzi dispersi in orbita (dati del mese di ottobre 2017) seguita dalla Russia che comunque possiede il maggior numero di satelliti (tra vivi e morti) in orbita e che complessivamente portano il numero di oggetti a 6.500. Seguono poi la Cina, la Francia per arrivare all’Italia in settima posizione. Purtroppo la presa di coscienza di questa situazione non è sufficiente ad impedire fatti come quello causato dalla Cina quando, nel 2007, distrusse volutamente un satellite ormai fuori uso con un missile anti-satellite. L’impatto causò la dispersione di almeno 2.300 frammenti osservati a Terra e forse migliaia di altri non rilevati. A volte poi, si hanno veri e propri incidenti non voluti, come quello del 2009 quando un satellite russo inutilizzato e un satellite Iridium 33, in attività, si scontrarono a 789 chilometri di quota. Anche in quel caso si produssero centinaia di frammenti. E un altro evento simile è successo nel 2013. Ora si spera che fatti come quello causato dalla Cina non debbano più accadere e si spera altrettanto che si faccia qualcosa per fare pulizia. Le proposte sono tante, ma al momento costosissime, per le quali nessuno si prende l’impegno di realizzarle. C’è la Cina, ad esempio, che propone di utilizzare una stazione orbitale con un potente laser, che spostata nei luoghi di maggiore concentrazione di detriti, li potrebbe polverizzare.

Secondo l’agenzia Space-Track, gli Stati Uniti sono il Paese che ha prodotto il maggior numero di frammenti celesti, con 3.999 pezzi dispersi in orbita. Seguono Russia e Cina. L’Italia è settima

C’è chi ha ipotizzato, invece, l’utilizzo di reti spaziali da lanciare contro i detriti più pericolosi e una volta inglobati nella rete farli precipitare nell’atmosfera. Il Giappone ha teorizzato l’utilizzo di satelliti dotati di sottilissimi cavi lunghi dai 5 ai 10 chilometri che sarebbero percorsi da corrente elettrica. Avvicinandoli ai detriti, che sono ferrosi, li rallenterebbe fino a farli precipitare nell’atmosfera. Ma ci sono anche problemi burocratici da superare, come ad esempio la legge statunitense, che impedisce a chiunque di toccare un frammento di satellite americano, senza il benestare della Nazione. Verrebbe considerato un atto di guerra.

La seconda domanda è: “Cosa si potrà fare in futuro per evitare un aumento dei detriti spaziali?” Un accordo internazionale prevede che i nuovi satelliti al termine della loro vita debbano essere fatti rientrare nell’atmosfera terrestre e bruciare completamente al di sopra di aree prive di popolazione. Per ottenere questo obiettivo è sufficiente ancorare un piccolo motore al satellite che a fine vita sia in grado di pilotare il rientro del satellite stesso. Anche in tal senso si stanno avanzando tante proposte, ma ce n’è una tutta italiana che sta riscuotendo notevole interesse.

Si tratta del Progetto D-Sat, sviluppata dalle D-Orbit una giovane azienda italiana voluta da Luca Rossettini del Politecnico di Milano. Si tratta di un sistema di propulsione chiamato D-3 (D-Orbit Decommissioning Device) che applicato su un qualsiasi satellite lo rimuove dall’orbita alla fine della missione o in caso di malfunzionamento. Il sistema è già stato sperimentato in volo e, anche se è venuto a mancare il risultato finale, l’insieme di tutti i dati raccolti ha rivelato che la metodologia può realmente funzionare a puntino. Ovviamente la speranza è che si trovi una soluzione nel più breve tempo possibile anche perché si stanno realizzando “costellazioni” per la distribuzione di Internet che richiederanno l’uso di migliaia di satelliti che non potranno certamente essere lasciati a se stessi in caso di avaria o dopo la loro attività.  



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