Quattro grandi fotografi spiegano la tecnica, gli spunti e lo stile per interpretare il territorio varesino attraverso una gita armati di obbiettivo, ma soprattutto sensibilità. Con qualche consiglio pratico e una provocazione: mettere da parte il digitale e tornare al rullino

C’è chi ha un approccio da sociologo, chi da esteta del paesaggio, chi racconta la vita delle periferie, chi immagina campagne pubblicitarie, chi scompone ciò che vede in forme e geometrie. Sono tanti i modi di affrontare la professione del fotografo. Un nobile mestiere che in provincia di Varese è molto ben rappresentato. Carletto Meazza è autore di decine di libri d’arte. Giorgio Lotti ha girato il mondo per i settimanali Epoca e Panorama fotografando Yasser Arafat, Zhou en Lai e i cercatori d’oro del Klondike. Claudio Argentiero scatta, raccoglie e rende fruibili da trent’anni le immagini delle trasformazioni del territorio. Franco Canziani ha dato un volto alle emozioni che si provano salendo di notte al Sacro Monte. Senza dimenticare il grande Vivi Papi, scomparso nel 2005, che ha lasciato centomila foto all’Università dell’Insubria consultabili nel Centro di storia locale di Villa Toeplitz. È un tesoro affettuosamente catalogato dalla vedova Anna Maria Fumagalli che richiama l’attenzione sull’importanza, per un professionista, di tenere in ordine l’archivio: “Non basta scattare le foto, consegnarle e dirsi ‘poi se avrò tempo le metto a posto’. Un privato, un giornale, un museo, un editore, un collezionista possono chiederti uno scatto anche dopo vent’anni e devi sapere dove mettere le mani”. 

Carriere prestigiose, percorsi d’artista, vite da giramondo. Un mestiere bohémien che riserva qualche delusione. La crisi economica in corso, le aziende che tagliano le spese della comunicazione e le nuove tecnologie che aprono la strada al “fai da te” assottigliano il fatturato a fine mese. E colpiscono quella che un tempo era la zona franca delle foto di cerimonia, matrimoni, battesimi, cresime, oggi spesso affidate, per risparmiare, agli scatti dell’amico appassionato. Non tutto è oro quel che luccica. Ma la passione, quella ce l’hai dentro e la provincia di Varese esercita mille e una seduzione sull’anima gentile dei fotografi. Anche di chi inizia e cerca idee da realizzare. Quali soggetti fotografare? Quali tecniche adottare? Ogni chef ha le sue ricette, ogni maestro un modo d’insegnare. 

Giorgio Lotti: “Ora mi sono innamorato del lago di Varese. L’ho frequentato quasi ogni giorno nelle quattro stagioni dell’anno. Ho fotografato tramonti, vento, nuvole. Ho colto il movimento dell’acqua, i disegni, i colori”

Giorgio Lotti è rientrato alla base dopo una formidabile carriera di fotoreporter. Un presunto flirt con Brigitte Bardot. Era a Firenze nel 1966 per l’alluvione, era con Eugenio Montale a Milano quando il poeta seppe al telefono di aver vinto il Nobel per la letteratura. Immortalò la sua reazione in nove scatti, dalla sorpresa al pianto: “è la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto – ammette –. Ora mi sono innamorato del lago di Varese. L’ho frequentato quasi ogni giorno nelle quattro stagioni dell’anno. Ho fotografato tramonti, vento, nuvole. Ho colto il movimento dell’acqua, i disegni, i colori. Tutto dipende dalla luce. Se vai nell’ora sbagliata è piatta, senza riflessi. Ideali sono il mattino presto e la sera quando i colori si esaltano.

Avrei pronta una perfetta campagna pubblicitaria, Varese turistica, con manifesti di due metri per tre”. Un consiglio ai giovani? “Non puoi fotografare con il digitale, annulli i colori più deboli. Devi poter impostare il tempo di esposizione, chiudere e aprire l’obiettivo secondo la luminosità. La macchina è importante ma conta la testa. Se non hai capito che cosa hai davanti, farai soltanto una orribile bella foto”.

Carlo Meazza: “Mi affascina l’inesauribile racconto della vita quotidiana della gente: gli avventori di un bar di periferia alle dieci di sera, le fermate dei pullman all’alba, la vita che gravita intorno alle stazioni, gli studenti con i libri negli zaini”

Carlo Meazza raccomanda di usare una macchina fotografica semplice, leggera e pratica. Ce ne sono tante non costose, dice. Consiglia di non appesantirsi con obiettivi strani, basta uno zoom focale variabile dal grandangolare al teleobiettivo, da 28 a 200 mm. Un chilo, un chilo e due di peso. E consiglia di sviluppare in bianco e nero.  Lui ha firmato volumi d’inchiesta, calendari e mostre d’arte. Ha fotografato i campi di battaglia della Resistenza e i siti Unesco, i luoghi che hanno ispirato Chiara, Sereni, Morselli, la poetessa Antonia Pozzi morta suicida, Calvino, Fenoglio, Meneghello e Renata Viganò, autrice del romanzo “L’Agnese va a morire”. “Mi affascina l’inesauribile racconto della vita quotidiana della gente – confessa – i ragazzi africani che giocano a pallone all’oratorio. Gli avventori di un bar di periferia alle dieci di sera, le fermate dei pullman all’alba, la vita che gravita intorno alle stazioni, gli studenti con i libri negli zaini che credono nel futuro nonostante tutto. Luoghi di resistenza umana. Bisognerebbe guardare le cose con serenità interiore, senza pregiudizi e con la capacità di meravigliarsi. Le foto sensazionali e gridate hanno la durata di una palla di neve. Restano quelle con un significato”. Claudio Argentiero va a caccia di dettagli. Ville, dipinti, cortili, fabbriche dismesse, archeologia industriale, il bacino dell’Olona. Sulla scia di Franco Pontiggia, dice con orgoglio. “Cerco uno stile personale oltre i cliché - spiega -. Esploro i segni marginali, gli stravolgimenti urbani, le architetture anomale, le forme e le geometrie attraverso i dettagli. Non mi interessa documentare, voglio interpretare. Metto il bello e il brutto a confronto. Bisogna sempre avere un proprio punto di vista”.

Claudio Argentiero fa parte della commissione che gestisce l’Archivio Fotografico Italiano, organizza mostre, festival fotografici. Predilige la tecnica a infrarossi in bianco e nero e non rinuncia a sviluppare di persona: “Oggi è normale manipolare lo scatto in Photoshop e far cambiare pelle all’immagine. Ma il post-produttore che ritocca è un grafico. Il fotografo invece aspetta la luce per dare prospettiva ed esaltare il segno. I tempi della pellicola sono lenti. Conta avere uno stile, non riprodurre la realtà perfetta come in certi album di cera dei matrimoni. O peggio ancora improvvisare”.

Franco Canziani è il poeta dei notturni al Sacro Monte. Nel suo libro forse più riuscito compie un avventuroso viaggio cogliendo i fruscii, le emozioni e la magia della notte salendo la strada delle Cappelle. Il lavoro di un anno. Ha richiesto cento escursioni, lo studio delle effemeridi, sole, luna, cielo stellato, la consultazione della webcam e delle condizioni atmosferiche del Campo dei Fiori. “Un’esplorazione esistenziale e mistica – la definisce – dopo anni di routine ho riscoperto il piacere di fare questo mestiere per passione. Cogliendo i toni, i chiarori e gli angoli di scatto giusti”.

Da quarant’anni campa lavorando per le aziende: “Le tecnologie aiutano a deresponsabilizzarsi - osserva -. Il paesaggio è alla portata di tutti, ma richiede regole e un pensiero alle spalle. Servono tre cose: pazienza perché con la luce sbagliata la foto diventa banale, preparazione sul soggetto perché lo studio del sole e della luna ti fa raccogliere il massimo, stabilità perché il cavalletto su cui posi la macchina ti consente di decidere il tempo, il diaframma e la sensibilità. Più bassa è la luce, più si allungano i tempi di posa. E hai tempo per ragionare, per fare modifiche. Il mercato offre cavalletti con buona testa per la macchina, in acciaio pesano di più, in carbonio e magnesio sono più leggeri. Ce ne sono di tutti i prezzi. Poi ciascuno ci deve mettere del suo”.



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