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Un'occasione persa per modernizzare anche in Italia il mondo del lavoro

Il quesito sui licenziamenti vittima della protesta contro l'uso improprio dei referendum.

Sarebbe stato un passo avanti, forse piccolo, ma nella direzione giusta. Invece, così come gli altri sei, anche il referendum sui licenziamenti si è perso nelle sabbie mobili del mancato quorum.
Anche la piccola modifica delle regole sul mercato del lavoro è rimasta vittima di quella che possiamo benevolmente considerare una protesta contro l'uso improprio dei referendum.
Almeno in parte, infatti, il voto del 21 maggio resta un forte richiamo a che il Parlamento torni a svolgere il suo ruolo, torni a produrre poche leggi, ma chiare, efficaci, al passo con i tempi, anzi se possibile, addirittura precedendo le grandi e importanti trasformazioni sociali.
E il mercato del lavoro nella realtà italiana è certamente uno degli scenari su cui c'è maggiore necessità di intervenire proprio per i cambiamenti profondi e sensibili che la congiunzione di nuove tecnologie e globalizzazione sta producendo.
I dati dell'ultima indagine sulle forze lavoro parlano chiaro: l'85% dei nuovi assunti appartiene alla vasta gamma di lavori atipici, con in prima fila i contratti a tempo determinato.
Non solo: la durata media di questi contratti è di 8 mesi, e dopo un anno solo il 30% viene convertito in un contratto permanente.
Che cosa ci dicono queste cifre?
Ci dicono che pur con tutte le difficoltà e le rigidità ancora presenti, il lavoro atipico sta diventando il principale se non unico strumento per creare nuovi posti di lavoro.
Ma non tanto perché le aziende preferiscono la maggior flessibilità possibile dell'impiego quanto perché è ormai nella stessa natura delle imprese, soprattutto di quelle nuove o di quelle che hanno saputo costruire elevati livelli di crescita, il considerare il lavoro come una realtà che deve progressivamente adattarsi ai mutamenti di struttura e d'organizzazione.
E questo, si badi bene, non diminuisce, ma rafforza la centralità delle risorse umane perché alla flessibilità e alla mobilità si accompagnano nuove e più dinamiche forme di retribuzione, di partecipazione agli utili o alla crescita di redditività, di collegamenti non solo alla realtà produttiva, ma anche alle dimensione progettuale dell'impresa.

Resta tuttavia il fatto che questa flessibilità rischia di esplodere nelle piccole imprese, soprattutto in quelle che sentono pesare i maggiori oneri che deriverebbero dal superamento della soglia dei 15 dipendenti, mentre non può che restare marginale nelle medie e grandi imprese.
L'esperienza internazionale dimostra peraltro che il lavoro atipico si espande in misura direttamente proporzionale alla presenza di rigidità nell'impiego permanente.
Negli Stati Uniti, dove le garanzie legali sono tradizionalmente limitate, la quota del lavoro flessibile non supera il 2% del totale, ma nello stesso vi è una concreta e reale situazione di pieno impiego.
In Italia invece, dove le garanzie restano pressoché assolute, proprio le garanzie di chi è all'interno del mercato del lavoro continuano a costituire l'ostacolo maggiore all'ingresso nel recinto dei “protetti” dei giovani, dei disoccupati, dei lavoratori marginali o addirittura “sommersi”.

Il referendum sull'art. 18 dello Statuto dei lavoratori mirava a togliere in piccola parte questa protezione ma ha avuto la sfortuna di cadere in una doppia trappola negativa: da una parte l'attenzione sulla consultazione è stata monopolizzata dal quesito elettorale per far fallire il quale è stata lanciata una concentrica campagna per l'astensione; dall'altra per la difesa dello status quo si sono mobilitati i sindacati (in parte, la Cisl, con l'astensione, in parte con una forte campagna per il “no”) con la loro capacità di coinvolgere non solo i lavoratori attivi, ma anche i pensionati e le loro famiglie.
Il fallimento della consultazione non può tuttavia bloccare ogni altra soluzione del problema: una riforma in senso meno garantista del mercato del lavoro resta comunque nella natura di un'evoluzione economica che voglia stare al passo con il progresso tecnologico e la globalità.

La soluzione c'è e se non si vuole fare la fatica di inventare qualcosa di nuovo basta prendere esempio dalla Spagna. Dopo un periodo di liberalizzazione dei contratti a termine si è data la possibilità alle imprese di adottare, limitatamente ai nuovi assunti, contratti a tempo indeterminato, ma con possibilità di licenziamento legata a indennizzi per la perdita dell'impiego e a incentivi per la trovare un nuovo lavoro.
Con questo mezzo non solo si è drasticamente ridotta la disoccupazione, ma si è soprattutto data alle imprese una prospettiva di poter gestire con flessibilità la forza lavoro riscoprendo concrete potenzialità di crescita. E questo è importante per la semplice e banale ragione che ancora più che nel passato nel mercato degli anni 2000 l'occupazione, quella vera, potrà essere creata solo dallo sviluppo.

06/05/2000

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