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Dopo i Talebani, gli scenari in Asia centrale

Un'analisi degli scenari e delle prospettive in Asia centrale dopo la caduta dei Talebani. Con, sullo sfondo, i nuovi giacimenti di gas e di petrolio


Asia Centrale: il baricentro delle tensioni, ai margini della globalizzazione...
Attualmente il baricentro delle tensioni globali è senza dubbio collocato nel bacino interiore della più vasta massa continentale del globo: l'Eurasia. L'Eurasia interiore è composta di pochi ecosistemi ospitali e molti abbastanza ostili all'uomo: deserti, steppe, monti rocciosi, terre ruvide... Prima del grande sviluppo del traffico marittimo e delle rotte oceaniche, da queste parti passava il grosso del traffico terrestre di merci, capitali, informazioni e persone che collegavano i mercati più importanti dell'Europa e del Mediterraneo, della Russia, del mondo arabo, della Persia, del mondo turco, della Cina e dell'India. Durante il tempo dell'Unione Sovietica (dall'inizio del XX secolo fino alla fine degli anni ottanta) queste zone avevano una certa importanza strategica (complessi minerari-industriali, poligoni e dump-sites nucleari, impianti militar-industriali...). Erano serviti da un modicum di infrastrutture agibili e una certa scolarizzazione di massa. Le culture locali (prevalentemente islamiche) non erano represse, ma il potere del "clero" (in caso di queste terre, gli imaam, i mullah, gli sheikh...) era sotto rigido scrutinio del potere sovietico centrale (il Partito Comunista dell'URSS, dominato dai russi bianchi, modernizzanti e materialisti). I movimenti socio-politici islamici non rappresentavano un grosso pericolo per nessuno. Con l'indebolimento del potere sovietico, a partire dalla fine anni Ottanta una buona parte di questa zona è diventata il terreno fertile di movimenti e partiti islamici, alcuni dei quali clandestini e ben armati. Il Pakistan e l'Afghanistan sono diventati culle del fondamentalismo islamico armato, grazie agli aiuti militari americani e ai petro-dollari sauditi in chiave anti-sovietica.
Da questo contesto, pian piano, è penetrato l'Islam radicale armato anche nei territori ex-sovietici di cultura islamica (Chechenya, Daghestan, Tajikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Azerbaijan, Kazakhstan, Kirghyzia...) e nei territori di prevalenza islamica della Cina (Xinkinag) e dell'India (Kashmir). Tuttora decine di migliaie di soldati russi sono impegnati nei territori ex-sovietici al di fuori dei confini della Federazione Russa (soldati sovietici ebbero un'esperienza amara in Afghanistan durante la loro occupazione di quel paese negli anni Ottanta). La Cina impiega una significativa presenza e controllo in Xinkiang, con costi abbastanza elevati.
L'India ha grosse difficoltà nel proteggere un sistema liberal-parlamentare in Kashmir all'interno della sua costituzione federale. I gruppi islamici radicali (piuttosto ben equipaggiati), che lottano per annettere il Kashmir al Pakistan islamico, sembrano riuscire a destabilizzare lo stato indiano di Jammu & Kashmir e a creare grande insicurezza e far drenare le risorse verso le faccende militari. Il governo indiano accusa apertamente il Pakistan per l'appoggio logistico ai gruppi islamici armati che operano nel Kashmir, e sembra determinato a chiedere un conto politico al Pakistan. La fine del regime talebano in Afghanistan non è ancora conclusa (vi sono soldati americani e loro alleati che stanno dando la caccia ai capi talebani e ai loro alleati nascosti nei cunicoli tra Afghanistan e Pakistan). L'attuale capo dello stato pakistano (il generale Pervez Musharraf, venuto al potere con un golpe un paio di anni fa) è anche il capo dell'esercito pakistano che tenta di riconciliare le due principali (attualmente contrapposte) fonti di sostegno all'esistenza della nazione pakistana: l'Islam per un'identità radicalmente differente da quella di essere una costola staccata della grande India (comunque prevalentemente indù-buddista) e l'Occidente per le forniture finanziarie e militari. Nel Pakistan, che possiede anche un piccolo rudimentale arsenale atomico (grazie agli aiuti tecnici dalla Cina in chiave anti-indiana e ai petro-dollari dell'Arabia Saudita in chiave della causa "santa" di un'atomica islamica), la vecchia formula dei tempi della guerra fredda, il cosiddetto "triplo A" (Allah, Army, America), è tuttora regnante in Pakistan. Insomma, l'Asia centrale è forse l'area del mondo dove oggi sono concentrati più numerosi e più consistenti focolai di conflitto e più alte probabilità di una guerra su grande scala. Questa conflittualità coincide con l'arretratezza sociale, con la contrazione del mercato interno e con una certa preponderanza politica dei movimenti islamici.
Il Xinkiang è l'area meno dinamica e meno prosperosa di tutta la Repubblica Popolare Cinese; il grande boom (trainato dalle industrie manifatturiere) degli ultimi due decenni non sembra aver influenzato in modo significativo l'economia e la cultura dei gruppi islamici della Cina (Uyghur, Hui, Uzbek, Tatar, Salar, Dongxiang...) che sarebbero più di 15 milioni secondo le stime ufficiali; quasi tutti concentrati nella parte occidentale del Cina, vicino ai confini di Pakistan, Afghanistan, Tajikistan, Kirghyzia, Tajikistan, Kashmir (India), Tibet (Cina)... tutte aree instabili.
Fino a due decenni fa lo stato indiano del Kashmir era uno dei fulcri dell'industria del turismo e di prodotti ortofrutticoli; ora è terreno dei più cruenti attentati terroristici e, di conseguenza, di una pesante militarizzazione del territorio. La vitalità civica e imprenditoriale, il commercio e il turismo, sono assenti. Le attività dei militanti islamici in Kashmir hanno praticamente isolato questa regione himalayana dal resto dell'India dove negli ultimi decenni i progressi in scienza e tecnologia sono andati di pari passo con le istituzioni liberali e con un'espansione significativa del mercato interno (l'India è il paese più importante, dopo gli Stati Uniti, per quanto riguarda le ricerche, lo sviluppo e gli affari nei settori di infotech, telecomunicazioni e chimico-farmaceutico). Il Pakistan che un'economia semi-feudale in agricoltura (latifondo...) e proto-capitalista nell'industria (mercato interno poco sviluppato, lavoratori minorenni, standards ambientali tra i più bassi del mondo); è più noto per madrassah (le scuole coraniche), le fucine dei talebani ed altri "guerrieri santi", che per le imprese e per i laboratori scientifici. L'Afghanistan (un mosaico di etnie di vari matrici) è letteralmente in rovina; sarà dura e lunga la rimessa in moto della vita civile ed economica normale (ammesso che si pacifichi bene e presto). Il Tajikistan (più vicino alle lingue e alle culture del ramo iranico della grande famiglia indo-europea) è la repubblica più arretrata, dal punto di vista delle infrastrutture e mercati, tra tutte le ex-repubbliche sovietiche: una terra ruvida attorno al nudo massiccio del Pamir (da dove si ramificano tute le catene montuose asiatiche come Himalaya, Karakorum, Hindukush, Kun-lun, Tien-shan...); senza sbocco al mare; senza riserve di petrolio e gas; ha istituzioni deboli (più di diecimila soldati di Mosca tuttora proteggono la capitale ed i confini). Nonostante le riserve di petrolio e gas e della grande attenzione internazionale il Turkmenistan, l'Uzbekistan e l'Azerbaijan (tutti e tre turcofoni, con regimi repressivi) restano paesi con grande depressione di mercati, culture e diritti civili. La Turchia, l'Iran e tutte le ex-repubbliche sovietiche dell'Asia centrale non hanno ancora conosciuto la vitalità e il dinamismo in business e cultura che invece sembrano aver inondato l'India, la Cina e il resto del Sudest asiatico negli ultimi due decenni. L'Asia Centrale è ai margini dei grandi circuiti economici-tecnologici globali (salvo quelli del traffico di petrolio, gas, armi, emigranti clandestini, droga... tutti circuiti particolarissimi e poco noti al grande pubblico).
Gli incroci delle rotte carovaniere di tempi lontani si erano sviluppati in bazaars, cittadelle, ponti, corridoi, passaggi, avamposti, oasi... che tutt'oggi, in rovina o in stato pietoso (e pericoloso), costituiscono la cornice di alcune economie nazionali che, a loro volta, dipendono dal traffico internazionale di petrolio, gas e armi (e anche di derivati oppiacei).

Incontri (e scontri) di civiltà e potenze
Nell'Asia Centrale si sono incontrati (qualche volta anche scontrati) i principali sistemi e culture del megacontinente euro-asiatico: vi sono ancora le tracce dei tempi dei primi Veda (testi sacri dell'Induismo ortodosso, circa 2800-3500 anni prima di Cristo), di Buddha (circa sei secoli prima di Cristo), Zarathustra (8-5 (?) secoli prima di Cristo, il fondatore di Ahura-Mazda, la fonte delle tradizioni iraniche pre-islamiche), di Alessandro Magno (il conquistatore macedone, 336-323 avanti Cristo), fino a quello dei talebani (fondamentalisti afghani e pakistani che nel 2001 distrussero le grandi statue rocciose di Buddha nel Bamyan, Afghanistan centrale, dopo aver polverizzati quasi tutti i resti degli antichi templi indù-buddisti), passando dai segni dei tempi delle conquiste dei variopinti seguaci di Maometto (arabi, turchi, iraniani, moghul...). Dopo il V secolo, ai tempi dell'ascesa dell'Islam in Medio Oriente, fino ai tempi dei colonialismi russi e occidentali (XVIII-XX secoli), l'Asia Centrale è sempre stata una zona di confine, un'area di relazioni e contrapposizioni fluide, tra gli imperi e le potenze del Vecchio Mondo. Alle ondate lunghe di influenze indiane, cinesi, persiane, elleniche, arabe e turche si sono sovrapposte quelle della Britannia coloniale e della Russia zarista.
Nei tempi della guerra fredda, passavano proprio da qui i tratti più difficili e oscuri della cortina di ferro che separavano il blocco sovietico dagli stati protetti dagli USA: la Turchia, il Pakistan, l'Iran dello Shah (pre-Ayatollah Khomeini) erano le sentinelle del blocco occidentale. La rivoluzione di Khomeini in Iran (1978) ha fatto perdere al blocco occidentale, capeggiato dagli USA, un grande appoggio locale senza alcun guadagno per il blocco sovietico. L'occupazione russa dell'Afghanistan (1979) ha creato una seria minaccia agli interessi USA nell'area (ha anche causato un impegno gravoso ai sovietici). Quindi l'importanza strategica di altri due stati protetti e sentinelle degli USA, la Turchia e il Pakistan, sono aumentati in misura notevole. A partire dall'inizio degli anni ottanta il regime turco (laico-militarista) ha ottenuto molti favori (finanziari, militari, logistici...) dagli USA nonostante i suoi tristi primati nella sistematica violazione di diritti umani (prigionieri politici), nella repressione di minoranze (curdi), nella prepotenza in Cipro (occupazione militare di una parte dell'isola), nei traffici illeciti (migrazioni clandestine, droghe, armi...) ai danni dell'Europa, compresa l'Italia. Nella stessa maniera, il Pakistan (regime islamico-militarista) ha ricevuto il tacito beneplacito dagli USA per una serie di atti illiberali: l'introduzione del primato dello Sharia (legge del Corano) nei codici civili e penali ai danni dei diritti umani, la guerra tramite separatisti militanti islamici contro l'India, un paese da sempre liberal-democratico, con la strategia di "mille ferite sanguinanti" (a thousand cuts war, come veniva formulata nei circoli ufficiali pakistani), la creazione delle retrovie di profondità strategica in Afghanistan in combutta con il regime talebano (una creatura del Pakistan), il programma di diventare la prima (finora l'unica) potenza nucleare islamica. I talebani ed altri "guerrieri santi" islamici hanno ricevuto armi, addestramenti e finanziamenti grazie proprio agli aiuti americani e sauditi. I flussi di questi aiuti esterni sono stati gestiti dall'Inter-Services Intelligence (ISI, l'onnipotente servizio segreto pakistano, fuori da ogni scrutinio parlamentare o giudiziario). Il signor Osama bin Laden era una figura chiave nella cooperazione USA-Arabia Saudita-Pakistan per convogliare gli aiuti finanziari e armamenti verso i gruppi di resistenza islamica anti-URSS in Afghanistan negli anni ottanta e per costruire i bunkers per le forze islamiche nelle zone di confine tra Afghanistan e Pakistan (le zone che hanno ricevuto i più pesanti bombardamenti americani tra ottobre e dicembre 2001). La più grande incongruenza della geopolitica americana durante la guerra fredda stava proprio nel suo corteggiamento dei gruppi e regimi illiberali e irresponsabili, nel nome di una lotta globale contro coloro che minacciavano il mondo liberale.
Il terrorismo globale ed i suoi pesanti costi per oggi (e domani) sono una conseguenza di questa incongruenza. La guerra contro il regime afghano-talebano capeggiato da Mullah Omar sembra aver rispolverato e rilanciato tutte le vecchie contraddizioni innescando una nuova dinamica politico-militare, piena di incertezze e rischi per la stabilità regionale e per le economie dei popoli locali e lontani. Il regime talebano è caduto; le centrali logistiche del terrorismo islamico con basi afghane sembrano distrutte (materialmente); è anche stata ottenuta l'accettazione (almeno ufficiale) della legalità internazionale da parte di tutti i paesi islamici (compreso il Pakistan, alleato numero uno del regime talebano fino a pochi mesi fa). Per i rischi di insicurezza, instabilità e di interruzione dei processi democratici, commerciali e civici non sono diminuiti nella regione. Anzi, questi rischi sembrano allargati in un'area ancora più vasta dell'Asia centro-meridionale (compreso il subcontinente indiano) che da sola ospiterebbe quasi un quarto della popolazione mondiale.

La fine dei talebani, pax americana, vecchi giochi, nuovi rischi...
Secondo le fonti ufficiali di una buona parte del mondo (occidentali, russi, indiani, israeliani...) gli ideatori della strage di innocenti (World Trade Towers, New York, 11 Sept. 2001) avevano le loro basi nei territori dell'"Emirato Islamico di Afghanistan" (nome ufficiale del regime Taleban), guidato da un "comandante dei fedeli" nella persona di Mullah Mohammad Omar, istruito in una scuola coranica pakistana, salito al potere con gli aiuti logistici e finanziari del Pakistan, fino a tre mesi fa l'alleato di ferro del governo pakistano, oggigiorno un fuorilegge-fuggitivo internazionale (ufficialmente anche in Pakistan). Per milioni di musulmani duri e puri il regime talebano di Afghanistan rappresentava un tentativo di realizzare uno stato islamico purissimo. Per il regime islamico-militarista del Pakistan (letteralmente "terra dei puri", nato dalla costola dell'India britannica) e acerrimo nemico dell'India, regime laico-liberale con la maggioranza di popolazione di fede non-islamica (ind-buddista-jainista), l'Afghanistan costituiva la retrovia di profondità strategica (strategic depth and backyard). Pur essendo povero di risorse (salvo le coltivazioni di papaveri) l'Afghanistan dei talebani era il santuario sicuro per molti gruppi islamici in lotta con mezzi terroristici contro gli stati non-islamici: Ceceni contro Russia, Kashmiri contro India, Uighuri-Xinkianghesi contro Cina, Mori-Mindanaoesi contro Le Filippine... Le fonti e i viadotti di ideologia, strategia, addestramento e finanze di tutti questi gruppi sarebbero stati i vari rami dell'unico network globale dell'Internazionale Islamica (l'organizzazione al-Kaeda, capeggiata dal Sheikh Osama bin-Laden, un altro grande fuorilegge-fuggitivo assieme a Mullah Omar), con basi in Afghanistan e fornitori in Pakistan, che da tempo ha dichiarato guerra agli USA, all'India, a Israele e alla Russia. Quindi le reazioni degli Stati Uniti d'America, legittimate dalla piena collaborazione (anche a livello operativo) di molti governi con regimi sostanzialmente liberali (Unione Euripea, Australia, Canada, India, Israele, Russia, Giappone...), non potevano che indirizzare contro il regime afghano-talebano.
Abbandonati dal governo pakistano (ultimo paese che teneva rapporti diplomatici con l'Afghanistan dei talebani) per un "pugno di dollari" nel momento critico, i talebani sono crollati sotto il peso delle bombe americane. Il regime pakistano è rientrato nell'ordine americano (pax americana) con un po' di imbarazzi politici, ma incassando anche molti vantaggi economico-finanziari. In questi giorni, oltre agli esoneri, esborsi, rinvii per pagamento dei vecchi debiti e nuovi prestiti dal Fondo Monetario Internazionale e da altre istituzioni internazionali sotto le influenze USA, il Pakistan sta ricevendo un totale di 1,10 miliardi di dollari USA solo come aiuto (non prestito) finanziario americano nella forma della cooperazione allo sviluppo. Inoltre i pakistani hanno ottenuto la fine delle sanzioni commerciali e anche la fine del blocco del trasferimento di tecnologie militari che erano in vigore sia per gli esperimenti nucleari pakistani del 1998 in violazione al trattato di non-proliferazione, sia per il golpe militare del 1999 (con cui l'attuale capo di stato, il generale Musharraf, è venuto al potere).
Da anni l'India è un bersaglio frequente del terrorismo islamico con basi in Pakistan e Afghanistan (ben documentate le connessioni con i talebani e al-Kaeda). Perciò, sin dall'inizio della campagna afghana degli Usa & alleati, il governo indiano ha collaborato con grande entusiasmo al fianco degli USA, con la speranza delle pressioni americane sul Pakistan per eliminare l'appoggio logistico pakistano in favore dei "combattenti per la fede" (Jihaadi) del Kashmir nei territori indiani e di diventare un partner strategico credibile dell'Occidente in Asia orientale. Evidentemente, gli indiani hanno sbagliato i calcoli: gli USA hanno deciso di tenere buono il Pakistan, un regime islamico capeggiato da un generale golpista, più facilmente dirigibile e controllabile da Washington, e hanno trascurato le esigenze dellÕIndia, un mega-stato liberal-democratico, grande partner commerciale e alleato naturale dell'Unione Europea, del Giappone e della Russia, ma anche potenziale contro-bilancia per la probabile egemonia cinese in Asia. Beffati e frustrati da nuovi favori americani verso il Pakistan come uno degli stati protetti dei tempi della guerra fredda, i governanti dell'India iniziano ad assumere un atteggiamento rigido e unilaterale.
Si prefigura una nuova corsa verso armamenti letali e ulteriori drenaggi di risorse verso le materie militari in un'area ancora pervasa dalla povertà di massa, ma molto promettente come grande mercato per tutti (si calcola che la classe medio-alta indiana sia di circa 200 milioni su una popolazione di un miliardo; gli indigenti, i cosiddetti sotto la Òsoglia di povertà, sarebbero circa il 30% della popolazione; la classe media sarebbe in lenta ma costante espansione). Le incertezze ed i rischi per i popoli, ambienti (habitats) e mercati dellÕarea (e per gli investitori esterni) sono decisamente aumentati.

Nuovi scenari...
E' nell'Asia Centrale - tra il Mar Caspio ad ovest e la Cina occidentale ad est, tra le steppe della Russia e del Kzakhstan a nord fino ai deserti dell'Afghanistan e dell'Iran a sud - che si stimano le più grandi riserve (la maggior parte non ancora toccate) di petrolio e gas naturali del nostro pianeta. E' sempre in quest'area che si produce la più grande quantitˆ degli oppiacei oltre a quello nelle giungle tra i confini di Tailandia, Myanmar o Birmania e Laos, (il cosiddetto golden tirangle, il "triangolo d'oro" per la droga. Afghanistan e Pakistan insieme vengono chiamate il golden crescent, la "mezzaluna d'oro" per il traffico di oppiacei. L'eliminazione di questo mercato illecito di droga (e i cartelli armati che gestiscono tutto) richiede grande e trasparente collaborazione internazionale. L'eventuale utilizzo delle riserve di petrolio e gas presuppone una dotazione infrastrutturale (impianti, pipelines, trasporti, comunicazioni...) e quindi un ordine istituzionale stabile all'interno delle nazioni-stato e tra gli stati vicini - per creare, gestire e mantenere tali infrastrutture. Questo ordine istituzionale non si potrebbe creare senza una certa intesa e collaborazione tra gli stati vicini e lontani, i vari portatori di interesse (stakeholders), i vari "giocatori".
Nello scacchiere dell'Asia centrale i "giocatori" sono tanti. In primis, i paesi con un enorme mercato interno dove la domanda di prodotti e servizi energetici (petrolio, gas) è superiore alle disponibilità locali (USA ed altri paesi industrializzati dell'Occidente, Giappone); poi anche tutti i paesi di nuova industrializzazione e/o in rapido sviluppo urbano-industriale (Cina, India...). Le potenze medie come Turchia, Iran e Pakistan sono altrettanto ambiziose nel loro programma industriale e militare. La Turchia aspira ad un posto nell'Unione Europa del futuro prossimo, facendo leva sulla sua importanza strategica nella geopolitica occidentale (le basi Nato) e della sua influenza nei paesi turcofoni (Azerbaijan, Turkmenistan, Uzbekistan...), tutti con grandi riserve di petrolio e gas. L'Iran ha grandi riserve nelle sue sponde del Caspio e nel Golfo, e aspira ad essere il corridoio per le pipelines che connetterebbero le riserve del Caspio con quelli del Golfo e con il mare aperto. Il Pakistan, a sua volta, vorrebbe trarre massimo vantaggio dalla sua posizione tra l'Oceano Indiano e le riserve ed i mercati dell'Asia Centrale (vorrebbe essere continuamente "premiato" per la sua adesione alla pax americana). Nessuna di queste medie e piccole potenze è affidabile per quelle minime garanzie giudiziarie e politiche che servono al business lecito e aperto, soprattutto fatto dai piccoli e medi operatori. La combinazione di arretratezza socio-economica (tanti giovani poveri, mal istruiti, disoccupati e arrabbiati), regimi illiberali, l'incertezza del diritto, l'egemonia delle forze armate, l'Islam politicizzato, le enormi ricchezze del sottosuolo, ecc. rendono l'Asia Centrale un'area prediletta per gli intrighi internazionali e per i rischi per tutti gli investitori e operatori economici. In queste condizioni è difficile immaginare un flusso di investimenti produttivi diversificati, commerci e scambi culturali con il resto del mondo, che poi sono le garanzie migliori del business e della pace tra i popoli.
In questo quadro vi sono alcune variabili chiave che potrebbero far emergere nuovi scenari in Asia Centrale come nel resto del mondo. La prima grande variabile è nel progresso post-moderno/post-industriale (scienza, tecnologia, stili di vita e consumi...) nella direzione diversa da quella dell'attuale dipendenza assoluta sul petrolio e sul gas e sul modello urbano-industriale pesante. Il cambiamento paradigmatico in atto (eco-innovazione dei processi produttivi, risparmi energetici, distretti polifunzionali, partnership tra le imprese e le organizzazioni civiche, i consumi critici e responsabili...) potrebbe rendere obsoleta l'attuale geopolitica americana basata sul controllo (da vicino o da lontano) sulle riserve petrolifere del mondo. E' bene ricordare che lo Sheikh Yamani, ministro del petrolio saudita per decenni (ora in pensione da parecchi anni), amava ripetere: "...l'umanità ha smesso di usare le pietre come armi da combattimento non per la scarsitˆ di pietre ma per la scoperta di altri mezzi più adeguati; nella stessa maniera non si dovrebbe credere nell'insostituibilità e nell'insuperabilità del petrolio... un giorno, neanche tanto lontano, il petrolio potrebbe diventare obsoleto...". Su questo punto, in un futuro non tanto lontano, molti investitori, produttori, operatori economici e consumatori dell'Unione Europea potrebbero ritrovarsi in posizione di leadership nel nuovo ordine mondiale. Naturalmente, occorrerebbero più ricerche e sviluppo e soprattutto più pensiero creativo e laterale in economia e business; una nuova ecologia industriale.
Un'altra variabile importante sta nell'alleanza naturale tra le forze liberali del Vecchio Mondo (il megacontinente euro-asiatico) attraverso le differenze di etnia e civiltà. Una politica internazionale credibile e coerente da parte dell'Unione Europea (non la doppia moralitˆ dei tempi della guerra fredda che ancora si annusa nella pax americana), nel rispetto dei diritti umani e della sicurezza ambientale, potrebbe facilmente creare le premesse per la vittoria degli elementi liberali in vari paesi islamici e non. Su questo punto l'Unione Europea potrebbe trovarsi in una posizione di vantaggio rispetto agli USA, e potrebbe far convergere nel suo disegno strategico sia gli stati storicamente liberali come l'India, che quelli in una fase di transizione (verso le istituzioni liberali e mercato) come la Russia, la Cina, l'Iran e la Turchia. Di conseguenza, si rafforzerebbero le forze politiche liberali, le istituzioni, il mercato e la società civile anche nel resto dei paesi dell'Asia Centrale. Naturalmente, la configurazione di questo scenario presuppone una comune politica estera e di sicurezza, ben coordinata e lungimirante, da parte dell'Unione Europea, con immaginazione, visione e determinazione. Una nuova politica internazionale liberale.
Pace duratura tramite il business tra i popoli, con l'ecologia industriale e con la politica liberale? Oggi sembra difficile, domani forse non impossibile.

Per saperne di più:
  • The Economist, 15th-21st December 2001
  • Homer-Dixon, T.F., Environment, Scarcity, and Violence, Princeton Univ. Press, N. Jersey, 1999
  • International Herald Tribune, 29th-30th December 2001
  • Ma Yin (ed.), China’s Minority Nationalities, Foreign languages Press, Beijing, 1994
  • Pant, D.R.(ed), Cultura, economia e business, Guerini Scientifica, Milano, 1998
  • Petrolium Economist & Arthur Andersen (business report), Energy Map of the Middle East and Caspian Sea, London, 2000
  • Rouleau, E., I molteplici volti dell’Islam politici, in: Le Monde Diplomatique/il Manifesto, Novembre 2001
  • Smith, R.S., Profit Centers in Industrial Ecology, Quorum Books, Westport/London, 1998
  • UNDCP (Programma delle Nazioni Unite per il controllo internazionale delle droghe), Annual Report, 2000
  • Squarcina, E. (ed), Glossario di geografia politica e geopolitica, Società Editrice Barbarossa, Milano, 1997
  • Wignaraja, P. & Hussain, A. (eds.), The Challenge in South Asia, United Nations University/Sage Publications, Tokyo/London, 1989

11/15/2001

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