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Il Gattopardo

Tutto cambia perché nulla cambi: dalla francese Edf all'Aspem varesina, in grande o in piccolo le privatizzazioni nascondono la rivincita dei monopoli.

In principio erano le privatizzazioni, efficace neologismo che evocava, più o meno nel momento in cui cadeva il muro di Berlino, la fine dei monopoli pubblici anche nei Paesi al di qui della cortina di ferro. Volute dall'Unione Europea, le privatizzazioni dovevano essere una traduzione concreta del principio secondo il quale le attività economiche avrebbero dovuto tornare ad essere una prerogativa del privato e del mercato.
Lo Stato doveva smettere di fare l'imprenditore, doveva ritirarsi dall'economia per potersi dedicare con maggiore efficacia ai propri compiti istituzionali, vuoi in forma accentrata, vuoi decentrata (giustizia, scuole, sanità, infrastrutture…). I privati avrebbero dovuto subentrare allo Stato nella conduzione delle attività economiche e ciò avrebbe assicurato più economicità di gestione, più concorrenza e, quindi, maggiori vantaggi per i consumatori e per gli utenti, nel caso di servizi pubblici come le utility: energia, acqua, ma anche trasporti, smaltimento rifiuti, farmacie, piscine e tutto quanto gestito dai comuni attraverso le aziende municipalizzate, ormai trasformate per lo più in società per azioni ma ancora possedute interamente dagli enti locali. Lo Stato avrebbe potuto incassare gli introiti della cessione ai privati dando una sistemata al disavanzo dei conti pubblici e avrebbe dovuto continuare ad occuparsi di economia assolvendo però solo compiti di regolazione del mercato, preferibilmente tramite le cosiddette Authority.
Di Autorità, nel nostro Paese, ne sono state istituite diverse (concorrenza, energia, comunicazioni, privacy, lavori pubblici, informatica nella pubblica amministrazione) e qualcuno ormai afferma che siano già troppe. In compenso, le privatizzazioni, dopo un avvio promettente, si sono arrestate e non solo in Italia, tant'è che a Bruxelles il Commissario Mario Monti continua ad insistere sulla necessità di completare questo processo ritenuto fondamentale per iniettare una dose di competitività nell'economia del Vecchio Continente.
Più ancora della lentezza nel dare corso alle privatizzazioni, preoccupa la tendenza, diffusa, ad aggirare nella sostanza la direttiva europea.
Il caso Edf, la società "Electricité de France" che ha tentato all'inizio dell'estate la scalata a Montedison per accaparrarsi il comparto energetico di Edison, è stato emblematico ed è apparsa a tutti molto evidente l'incongruenza insita nell'acquisizione di una società privata da parte di una società pubblica.
Una società che dovrebbe essere privatizzata e che, invece, non solo rimane caparbiamente sul mercato nella sua veste di sempre ma, addirittura, cerca di espandersi mediante acquisizioni tendenti a ricreare, all'estero, nuove situazioni di monopolio. E lo stesso può dirsi per le reciproche cessioni di centrali tra l'Enel e la spagnola Endesa.
Ritardi e camuffamenti sono una prerogativa anche del nostro Paese e non solo a livello di grandi imprese pubbliche (si pensi ad esempio a quanto tempo si sta impiegando per cedere le centrali ENEL) ma anche di ex-municipalizzate. La prima incongruenza sta proprio nel divieto legislativo a cedere ai privati più del 50 per cento del capitale sociale delle municipalizzate: un divieto palesemente in contrasto con il concetto stesso di privatizzazione, che ora il nuovo Governo è intenzionato a rimuovere trasformandolo in facoltà.
I comuni, in altri termini, diventerebbero liberi o di cedere il controllo delle ex-municipalizzate, o di mantenerlo. Ma anche quando, seppure conservando la maggioranza del capitale sociale, ci si appresta a privatizzare, l'atteggiamento più diffuso è quello di ricorrere alla loro quotazione in Borsa. Si tratta della scelta più "conservatrice", anche se in apparenza potrebbe non apparire tale. Infatti, la quotazione non è altro che un'operazione finalizzata ad acquisire risorse sul mercato finanziario, lasciando nei fatti immutata la governance della società.
In alcuni, pochi, casi - come quello dell'ASPEM di Varese - sembrava si fosse fatto, quanto meno, un passo avanti. Infatti, nonostante fosse stato previsto che il Comune dovesse cedere soltanto una quota minoritaria del capitale sociale, si era stabilito che tale quota potesse essere acquisita da un soggetto (unico o da una cordata, indifferentemente) che avesse le prerogative per essere considerato un partner industriale con esperienza specifica nei settori nei quali la municipalizzata opera (energia, acqua, rifiuti). Insomma, se non altro un aspetto positivo, rintracciabile nella volontà di migliorare la gestione "produttiva" dell'azienda.
Il fatto è che, in concreto, i requisiti stabiliti per tale partnership sono stati così restrittivi da circoscrivere la cerchia dei potenziali concorrenti a soggetti che - guarda caso - coincidono con aziende che provengono ancora dal settore pubblico: le ex-municipalizzate di altri comuni e l'Enel, l'ex monopolista dell'energia elettrica. In corsa per il pacchetto di minoranza di Aspem ci sono, infatti, il gruppo formato da Enel ed Econord (società varesina che si occupa della gestione di discariche e rifiuti, unico soggetto privato in corsa); il duo formato da Aem di Milano e Amga di Genova e, infine, la società costituita dalle ex-municipalizzate di Busto Arsizio (Agesp), Bergamo (Bas) e Como (Acsm).
L'elevato impegno economico richiesto per concorrere alla privatizzazione (che continuiamo a chiamare così solo per comodità) ha di fatto escluso operatori di media dimensione operanti nel settore delle multiutility, i quali non avrebbero neppure potuto concorrere in cordata con soggetti di diverso tipo - cioè con banche, istituzioni finanziarie, privati risparmiatori, ossia con soci interessati ad un'operazione di investimento, la cui presenza avrebbe potuto però consentire l'ingresso al loro fianco di un partner tecnico - in quanto tale eventualità è stata espressamente esclusa dal bando.
Una scelta strana, dettata forse da una diffidenza verso gli investitori finanziari senza peraltro considerare che gli altri potenziali concorrenti sono e non potevano che essere soggetti, a loro volta, partecipati da grandi investitori finanziari o addirittura soggetti che rappresentano, essi stessi, ormai delle holding, anziché delle attività industriali direttamente operative.
Ma c'è di più. La scelta di posizionare su livelli molto elevati le basi d'asta produce un effetto negativo per i consumatori. Vero è che l'ente pubblico realizza, nell'immediato, dei ricavi considerevoli.
Nel medio-lungo periodo, però, saranno ancora i cittadini a pagare in quanto, per i soggetti che subentrano, sarà più impegnativo ammortizzare il capitale investito e ciò si ripercuoterà inevitabilmente sulle tariffe praticate agli utenti. E senza considerare un ulteriore effetto davvero perverso.
In presenza di tariffe mantenute alte, i privati possono non avere interesse ad allargare la propria quota di partecipazione nelle ex-municipalizzate. Un segmento anche piccolo di mercato, infatti, può bastare, se il valore aggiunto è elevato, a soddisfare il business atteso, con buona pace della concorrenza e degli interessi dei consumatori.
Sono tutte conseguenze negative di un processo di privatizzazione monco e per di più travestito. Un processo che sta trasformando le privatizzazioni in un fenomeno che, paradossalmente, vede ancora gli stessi soggetti, da privatizzare, incrociarsi tra di loro per sopravvivere sotto mentite spoglie.
Non c'è che una strada per uscire da questo groviglio: eliminare la riserva della maggioranza azionaria in mano pubblica. Solo così potrà parlarsi veramente di "privatizzazione", senza camuffamenti.
Se non ci sarà una vera sostituzione dei privati alle aziende pubbliche, non si creeranno mai le condizioni per un mercato libero. Quello delle utility continuerà ad essere un mercato per pochi operatori, che potranno in tutta tranquillità continuare a praticare tariffe alquanto redditizie sulle spalle degli utenti. Non è un caso, del resto, che le Fondazioni Bancarie si siano messe a guardare con estremo interesse a enti come Enel e Eni e alle ex-municipalizzate, stiano cioè pensando, convinte ormai dell'ineluttabilità della loro uscita dalle banche e dalle assicurazioni, di partecipare al processo di privatizzazione per investire le proprie risorse in un mercato giudicato alquanto remunerativo. Peccato che le Fondazioni Bancarie siano soggetti che non rispondono al mercato e che sono guidate da amministratori di nomina pubblica.
Il loro ingresso nelle aziende da privatizzare non solo contrasterebbe con la loro natura di enti estranei alle gestioni d'impresa, ma finirebbe per ingessare il processo di privatizzazione inteso nel suo autentico significato: approdare cioè ad una proprietà e a una gestione privata che, senza più condizionamenti di sponda politica, assicuri condizioni di efficienza ed economicità maggiori del passato.
La partita, per i consumatori, è difficile, perchè, tra ripensamenti dei politici, resistenze delle ex-municipalizzate e incursioni di investitori estranei alla logica di mercato, si rischia, anche sul tema delle privatizzazioni, una nuova stagione di trasformismo.

09/13/2001

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