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Molte ombre e poche luci sulla Finanziaria

Tutti scontenti per una Finanziaria che era attesa come punto di svolta e, invece, non ha portato con se' quelle riforme strutturali da più parti auspicate.

Ogni anno la presentazione della Finanziaria lascia pochi entusiasti e molti delusi: tutti, ovviamente, si aspettano misure che non penalizzino, anzi sostengano, l'attività delle categorie di riferimento. Ma mai, come all'inizio dello scorso ottobre, il documento più significativo del Governo si è trovato di fronte a un coro di no: dai partiti dell'opposizione (ed era scontato) ai sindacati (che non si sono accontentati degli sgravi per le famiglie con i redditi più bassi) al mondo produttivo che si è visto tagliare o ridimensionare tutta una serie di interventi (che chiamare "agevolazioni" è a dir poco curioso, considerata l'elevata pressione fiscale e contributiva sulle imprese). Tra i più "arrabiati" i rappresentanti degli Enti locali che, con un'operazione bipartisan, hanno accusato il Governo di aver ridotto del 2% i trasferimenti e bloccate le addizionali Irpef con il risultato che Comuni, Province e Regioni dovranno migliorare da sole il saldo finanziario. Insomma una bocciatura su tutta la linea resa ancora più esplicita dal giudizio di Antonio D'Amato: "Molte ombre, poche luci e incerte", ha detto il presidente di Confindustria all'indomani della presentazione della Finanziaria. "Avremmo voluto - ha insistito - una Finanziaria di svolta e, invece, non ci sono le riforme strutturali soprattutto in materia di previdenza e sanità necessarie per dare al Paese più competitività, in particolare al Sud". Nelle settimane successive, come d'altra parte vuole la tradizione, si è scatenata la corsa all'emendamento per correggere la manovra fino ad arrivare al maxiemendamento di metà novembre. Di "assalti alla diligenza" si è sempre assistito anche nel passato ma mai come questa volta non sono in gioco soltanto interessi di bottega ed autodifesa delle proprie posizioni.
La protesta è stata trasversale e per riuscire a evitare un progressivo sfilacciamento di quel blocco sociale che ha consentito al Centro-destra di vincere le elezioni del 2001, il Governo è stato costretto a correre ai ripari. Ma lo slalom tra compatibilità e risorse a disposizione quest'anno è più impegnativo del solito soprattutto in assenza di quelle riforme strutturali che, se attuate, sarebbero in grado di aprire nuove prospettive. La debolezza della crescita e l'espansione del deficit - una situazione che avvicina l'Italia agli altri Paesi europei e agli Stati Uniti - non lascia grandi spazi di manovra all'Esecutivo che ha fatto dell'ottimismo e della capacità di governare anche le emergenze il proprio vanto. Una dimostrazione del momento difficile si può ricavare dai continui litigi all'interno della maggioranza (in particolare tra Lega Nord e i centristi dell'Udc) e dal progressivo defilarsi del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. Appare ovvio che, in un periodo di bassa congiuntura, non serve a niente cercare di "tirare la coperta da una parte all'altra": qualcuno alla fine rimarrà scontento.
La difficoltà di far quadrare il "classico" cerchio si scontra, infatti, con le previsioni negative dell'economia italiana che deve fare i conti con la ritardata ripresa produttiva e, quindi, con il rallentamento delle entrate per lo Stato. Ogni settimana sembra un bollettino di guerra. L'ultimo allarme arriva dall'Ocse che pronostica, per l'Italia, una crescita quasi zero (+0,1%) per quest'anno e un incremento non spettacolare (+1,5%) per il prossimo. Un po' più generosa la Ue che prevede un aumento dello 0,5% per il 2002 e dell'1,9% per il 2003. Non cambia molto nelle previsioni e non serve consolarsi con il fatto che un gigante come la Germania stia peggio di noi.
Intanto bisogna prendere atto che siamo lontani da quell'incremento del 2,7% per il prossimo anno in precedenza stimato dalla Ue. Frena la crescita mentre l'inflazione sembra mantenere inalterata la corsa degli ultimi mesi e tutto lascia prevedere che il 2002 si chiuderà con un aumento dei prezzi intorno al 2,5%. E qui si apre un nuovo versante, altrettanto delicato, vale a dire quello dei rinnovo contrattuali. Ancora una volta c'è il rischio di riproporre una sorta di divaricazione tra pubblico e privato. Perché se nel primo caso - anche per convenienze di consenso politico e sindacale - già ci sono i segnali di possibili soluzioni a pioggia (gli aumenti subito nel nazionale e nessuno spazio a un riconoscimento della produttività), nel secondo ci sono i pericoli di aprire una stagione di conflittualità. A fine anno scadrà il contratto dei metalmeccanici, la categoria che - nonostante il cambiamento dei tempi - continua a essere il vero punto di riferimento per l'industria. E le premesse sono le peggiori che ci si possa aspettare con un sindacato profondamente diviso (saranno presentate tre piattaforme separate) e richieste (quella della Fiom intorno ai 135 euro mensili) che potrebbero far saltare il banco e innescare un clima di tensione nelle fabbriche che mal si concilia con l'esigenza di ritrovare quel minimo di unità d'intenti tra le parti indispensabili per superare una fase di crisi. La Fiom, che già ora è una sorta di enclave all'interno della Cgil, i cui vertici sembrano non avere il coraggio di affrontare la sua intransigenza, va in controtendenza rispetto alle pur timide prove di dialogo all'interno dei confederali. Dopo lo strappo del luglio scorso sul Patto per l'Italia Cgil, Cisl e Uil - pur distanti sui temi centrali del dibattito in corso (dalla democrazia sindacale agli assetti contrattuali) si sono riavvicinate di fronte alle emergenze delle ultime settimane come la crisi alla Fiat e le misure a sostegno del Mezzogiorno.

11/21/2002

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