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Non solo Cina. Dito puntato sulla competitività

Il nostro paese e la perdita di competitività. Un problema cui vanno trovate delle soluzioni con pragmatismo.

Dipinta da alcuni come un drago cattivo e da altri come un gigante che deve crescere, la Cina, animatrice del dibattito ferragostano, è il paese che ha avuto il merito di risollevare l'attenzione sul problema della competitività del sistema Italia. Perché i motivi della nostra preoccupazione non stanno in Cina, ma qui da noi. E lo dimostra il fatto che la competitività delle produzioni italiane sta diminuendo anche rispetto alla Germania, alla Francia e agli altri paesi europei che subiscono anch'essi la concorrenza dei paesi emergenti, ma non sono in una situazione di fragilità competitiva paragonabile alla nostra. Al di là quindi delle prese di posizione e del dibattito tra neo protezionisti e liberisti, è alla perdita di competitività che il paese, indipendentemente dalle ideologie, deve trovare una soluzione. Si tratta di una sofferenza di sistema che trova facili riscontri in numerosi dati.
I primi, in questo momento sotto gli occhi di tutti, sono quelli del commercio estero. Quest'anno la bilancia commerciale si avvia a chiudere in rosso per la prima volta dal 1993, segno evidente di sofferenza. Dietro il disavanzo commerciale si nasconde una dinamica in rallentamento delle nostre esportazioni - da gennaio a giugno, sono diminuite complessivamente del 2,8% rispetto al primo semestre del 2002 e di ben il 9,8% rispetto allo stesso periodo del 2001- ed un aumento delle importazioni - pari al 2,2% nei primi sei mesi del 2003 - peraltro contenuto dalla persistente debolezza della domanda interna.
Sarebbe troppo semplice liquidare questi dati come l'effetto congiunturale di un rallentamento della domanda mondiale associata ad una fase di rafforzamento dell'euro nei confronti del dollaro che, in effetti, si è apprezzato di più del 20% dal gennaio 2002. E' solo in parte così, perché, come mette in rilievo Banca d'Italia, la nostra quota di export è passata dal 1995 al 2002 dal 4,5% al 3,6%.
A rafforzare questa sensazione c'è la cartina al tornasole del flusso di investimenti esteri in entrata - IDE, che vedono il nostro paese dal 1996 al 2001 arenarsi allo 0,5% del PIL contro il 2,6% della Francia, il 2,7% della Germania il 5% del Regno Unito ed il 12,2% della Irlanda e, parallelamente, rallentare anche il flusso degli investimenti esteri in uscita.
L'incrocio di questi dati traccia un profilo quanto mai preoccupante perché ha visto l'Italia mancare quella silenziosa ed importante rivoluzione che ha ricomposto le bilance estere dei paesi industrializzati facendo diminuire il peso dell'export ed aumentare quello degli investimenti diretti. Lo squilibrio persistente nel nostro paese tra investimenti dall'estero ed investimenti all'estero testimonia il prevalere degli svantaggi a produrre all'interno, sui vantaggi a produrre all'estero.
Si tratta di una situazione generata da molteplici fattori che hanno contribuito ad avviare l'erosione competitiva che ora, in presenza di una dinamica congiunturale stagnante, appare in tutta la sua evidenza.
L'Italia da questo punto di vista è un melting pot che associa punti di eccellenza, generalmente individuale - la preparazione e la versatilità delle risorse umane e manageriali - a livelli elevati di inefficienza (generalmente collettiva).
E' sin troppo facile ricordare l'elevata pressione fiscale, insieme a quella contributiva, che ci colloca tra i paesi industrializzati con le aliquote più elevate. Una pressione eccessiva che, se da una parte riesce a malapena a coprire un sistema di welfare sempre più inefficiente, dall'altra mostra la corda laddove genera un processo di distorsione delle risorse da obiettivi di crescita per alimentare politiche fiscali tutte tese verso obiettivi di pareggio del bilancio.
La pressione fiscale pesa in maniera smoderata sia sulle decisioni di spesa dei cittadini, frenandone i consumi, sia sulle imprese, limitandone la capacità di autofinanziamento con risorse interne e penalizzando quel processo di accumulazione dei profitti che alimentano la crescita, gli investimenti, la ricerca e, in definitiva, favoriscono il consolidamento dell'intero sistema. In queste condizioni diventa sempre più difficile attrarre investitori stranieri, come dimostrano i dati sugli IDE, ma ciò che è ancor più preoccupante è che sta diventando difficoltoso trattenere gli investitori italiani ed invogliare la creazione di nuove imprese.
La scarsa competitività è un fenomeno che trova alimento, anche, nel sottobosco della mancanza di regole o nelle regole disattese di una liberalizzazione mai arrivata a compimento e concretizzatasi in asimmetrie di mercato e in differenziali di costo sull'energia elettrica che, per le fasce di utilizzo più elevate, possono oscillare tra il 30% ed il 50 % in più degli altri paesi europei.
Ma la scarsa competitività non si limita ad una questione di costi, è spesso anche una questione di efficienza nella circolazione di idee e nel favorire rapporti tra università ed il mondo delle imprese. Non si può certo ignorare che il tasso di innovazione e di ricerca del nostro paese lancia un'ipoteca sulle possibilità di alimentare la crescita. Pur con le dovute cautele nell'interpretare alcune statistiche che non tengono conto delle modalità con cui le imprese italiane, soprattutto le PMI, originano l'innovazione, tassi di spesa in Ricerca e Sviluppo sul PIL di poco superiori all'1% ci collocano a livelli percentuali che sono un terzo di quelli degli Stati Uniti e meno della metà di quelli della Germania e della Francia. Se poi si passa dalle percentuali ai valori assoluti il divario si amplia a dismisura.
Ne si può ignorare che la competitività dell'Italia poggia su equilibri demografici che rendono sempre più fragile il mantenimento nel tempo del suo sistema di welfare.
Senza voler avanzare alcun giudizio di valore, la sua fragilità sta nei numeri. Illuminante al proposito l'analisi del professor Massimo Livi Bacci, ordinario di Demografia all'Università di Firenze, uno dei più autorevoli studiosi in questo campo (cui venne affidata la prolusione all'inaugurazione dell'anno accademico 2000-2001 all'Università Cattaneo, ndr) - il quale non manca di ricordare a proposito della sostenibilità del sistema pensionistico che "L'equazione fondamentale del futuro è semplice: se la vita si allunga, il periodo di quiescenza va adeguatamente riproporzionato. Oggi l'attesa di vita media di un cittadino italiano è di 80 anni, 77 per gli uomini e 83 per le donne, la regola aurea sarebbe, o sarà, lavorare sei mesi in più per ogni anno di vita media guadagnata. Questo perché, sempre in una media, la quota dedicata al lavoro da un'esistenza è la metà. Non si potrà più pensare di lavorare 25-30 anni e poi andarsene in pensione sino alla fine dei propri giorni". L'insostenibilità di un patto tra le generazioni che scarichi sui figli gli oneri di mantenere i padri, laddove venga a mancare un rapporto 1 ad 1, sottolinea l'urgenza con cui occorre intervenire e riformare il sistema correggendolo prima che le tendenze demografiche esplodano in maniera deflagrante facendo saltare equilibri sociali ed alimentando conflitti generazionali.
Si potrebbero individuare numerosi altri fattori che influenzano la competitività del sistema, da quelli hard come le infrastrutture, che vedono l'Italia penalizzata in termini di dotazione complessiva ed ancor più in termini di sovrautilizzo delle stesse, in particolare in alcune regioni del paese che trainano lo sviluppo del sistema; a quelli soft come l'atteggiamento poco motivato dei giovani verso il lavoro di fabbrica. E' un elenco che fatica a trovar fine. Tuttavia una cosa è certa: oggi la crescita ce l'ha solo chi la merita.
Non è quindi con atteggiamenti neo protezionisti verso i paesi emergenti che si può pensare di risolvere il problema, caso mai lo si rimanda e nemmeno del tutto, considerato che la competizione con i prodotti stranieri avviene in gran parte fuori dal mercato europeo. Le facili tentazioni protezionistiche, quando travalicano la giusta lotta alla contraffazione e la promozione della tracciabilità del prodotto, si dimostrano di corto respiro, in quanto rischiano di essere paraventi illusori, perché lasciano intendere che il problema si crei solo fuori dai confini, mentre esso nasce e prospera anche all'interno. Non è quindi una strada percorribile a lungo. La riduzione della povertà e la globalizzazione equa passano attraverso l'apertura dei mercati europeo ed americano ed attraverso la ricerca di efficienza in quei sistemi paese. E' quello che con le recenti riforme hanno già iniziato a fare Francia e Germania, i nostri principali partner commerciali. E' quello che dovremo iniziare a fare anche noi evitando
di alimentare la ripresa con politiche deficit spending, che non hanno più sufficiente sostenibilità nel nostro paese, riformando i meccanismi di funzionamento del sistema (pensioni, liberalizzazioni, fiscalità, sanità etc.), attuando politiche di orientamento delle risorse verso azioni che non favoriscano solo l'accumulo di capacità produttiva, ma aiutino le imprese nel loro cammino di crescita all'estero (investimenti commerciali, marchi etc.) e nel miglioramento del prodotto. Attendere significherebbe lasciare che il gap diventi irraggiungibile perché "In affari la concorrenza ti morderà se continui a correre; se resti fermo, ti inghiottirà".

09/25/2003

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