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Warhol, l'occhio che guarda

Arona omaggia il Re della Pop Art a vent'anni dalla morte, con 140 opere di collezionisti italiani.

Il "Pittore di corte degli anni settanta" Andy Warhol, come lo chiamava Robert Rosenblum, il Dorian Gray della Pop Art come altri lo avevano battezzato, si confessava con Gillo Dorfles nel 1983, in occasione della mostra milanese "Warhol e moda": "Se vuoi sapere tutto di Warhol non hai che da guardare la superficie dei miei quadri, dei miei film e di me stesso. Io sono lì. Dietro non c'è niente".
Quel niente dietro ai quadri di Warhol è il tessuto di una vita cominciata a Pittsburgh il 6 agosto 1928. Nella trama di quel tessuto che lui sembrava voler annullare stavano impigliati infiniti indizi di vita: i primi, fondamentali indizi sono un letto, una radio, la bambola Charlie Mc Carthey e le figurine di carta da ritagliare del bambino Andy malato di depressione. E anche gli scarafaggi della sua casa newyorchese di giovanissimo e povero pubblicitario. Benedetti scarafaggi, a ben vedere. Soprattutto quello scivolato dai suoi disegni sulla prestigiosa scrivania dell'Harper's Bazaar di Carmel Snow. Ci rimase talmente male, lei per lui, che gli offrì la collaborazione desiderata.
Chi vuole avvicinarsi, a vent'anni dalla morte, all'opera e alla vita di Warhol può cogliere l'importante occasione offerta a Villa Ponti di Arona (fino al 25 novembre). La mostra aronese dell'anno curata da Mirella Panepinto e da Carlo Occhipinti "Made in Warhol" presenta 140 opere, tutte tratte da collezioni italiane, realizzate da Warhol tra il 1955 e il 1987, oltre ad alcuni omaggi e foto d'artista a lui dedicati (Arman, Ugo Nespolo, Lara Martinato e Maria Mulas).
E' possibile soprattutto vedere da vicino il capolavoro presentato alla galleria del Credito Valtellinese di Milano dall'artista, pochi mesi prima della morte, "The last supper", adorante e rispettoso omaggio all'Ultima Cena di Leonardo. Ma sono in mostra anche le famose Campbell's Soup, le belle serie grafiche dedicate ai travestiti "Ladies and Gentlemen" (del 1975) e all'epopea del West America (1983). E ancora le serigrafie "Flowers" su carta e tessuto degli anni '60, accanto all'immancabile produzione relativa al mito America (quella della "democratica" Coca Cola, per intenderci) e a tutti gli altri miti dei divi e dei potenti, i personaggi del jet-set: Marilyn, Liza Minelli, Madonna, Enrico Coveri, Man Ray, Mao, Lenin.
Da non sottovalutare i preziosi "Vesuvius", emozionante, intenso sguardo sull'Italia dell'ultimo Warhol, e alcuni progetti grafici di pubblicità per scarpe, disegnate negli anni Cinquanta da un invece giovanissimo Warhol, mai prima presentate in pubblico.
Dopo la sua morte, spento il chiacchiericcio mondano a cui neppure lui, abituale animatore, o frequentatore di feste per ragioni professionali, poteva rinunciare, congelato il giudizio moralistico su di un personaggio senza inibizioni, respinto il sommario processo dei critici che non erano stati al passo di chi era certamente più avanti degli altri, Warhol appare, ancor più che l'indiscusso re della Pop Art e maestro dell'arte seriale, precursore e profeta di una società, quella del Grande Fratello, in cui importa solo apparire. Ma è anche il demiurgo geniale che prova a risolvere il conflitto tra immagine fotografica e pittura, tra tecnica e arte, addomesticandole entrambe alla personale fantasia.
Ottiene i risultati desiderati non senza sofferenza, il prezzo è quello del distacco, del non contatto fisico con il suo prossimo, dell'aspetto algido, dei colori neutri della sua persona e del suo abbigliamento. Il ripiegamento in se stesso è necessario per Warhol. Non perché viene respinto o non ascoltato, e neppure perché il contatto o il coinvolgimento ravvicinato con la gente lo fanno soffrire, come si ostina a ripetere. In realtà lui c'è, è presente - appiattito su di sé come la superficie perfettamente levigata delle sue opere. Per non perdere di vista niente e nessuno, come nella sua rassicurante stanza da infante depresso, Andy non respira e non parla. Eppure c'è, testardamente. Warhol è l'occhio che guarda sul mondo: che vede e fissa e riproduce per tutti anche l'immagine della sedia elettrica "Electric Chairs" o le carcasse delle macchine sventrate dagli incidenti. Non gli importa se il suo mondo ideale finisce per ridursi a una stanza e a un letto: meglio, una cuccia. La cuccia del bambino depresso Andy e la cuccia lussuosa dell'adulto Warhol sono la stessa cosa. Nella cuccia di un letto si nasce, si mangia, si fa l'amore e si muore. Una cuccia basta, lui l'aveva capito e lo dice.
I soldi che chiede ed esige - tanti - sono il risarcimento di una vita iniziata, negli anni della grande depressione, da due emigrati slovacchi, un padre minatore, Andrej Warhola, e una mamma tuttofare. Sono il compenso per il suo genio, ma soprattutto l'attestazione dell'importanza di chi è salito in alto. Il denaro che incassa è anche, massima gioia, la vendetta contro la boria cieca di certi critici. Soprattutto di quelli che si unirono in ritardo, appena dopo la morte, agli osanna del gran coro mediatico. "Alcuni critici mi hanno detto che sono il Nulla in Persona e questo non ha aiutato per niente il mio senso dell'esistenza. Poi mi sono reso conto che la stessa esistenza non è nulla e mi sono sentito meglio. Ma sono ancora ossessionato dall'idea di guardarmi allo specchio e di non vedere nessuno".
A vent'anni dalla morte Warhol è ancora tra noi, quasi non se ne fosse mai andato. E' nei libri e nei giornali, compare da video e manifesti, sugli oggetti d'arredamento e sopra le t-shirt. Ci osserva, il pennacchio dell'argentea parrucca inalberato, i jeans sdruciti che noi indossiamo oggi e che lui si era inventato già allora. Tiene l'occhiuta macchina fotografica tra le mani. Puntata sul mondo, come un'arma. (L.N.)

09/21/2007

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