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Debole come l'euro

Anche dopo la sua introduzione come moneta circolante, non più quindi solo come moneta scritturale, l'euro continua ad essere debole.

L'introduzione in circolazione dell'euro è stata la tappa finale di un lungo processo di integrazione monetaria avvenuto tra alcuni paesi dell'Unione Europea. Da un punto di vista tecnico-logistico l'operazione si è svolta in modo eccezionalmente fluido: 50 miliardi di nuove monete e 14,5 miliardi di banconote sono scivolate negli ingranaggi dell'economia senza grossi problemi. Ovviamente l'operazione ha avuto dei costi. Non sono stati forniti dati ufficiali, ma i costi di introduzione sono stimabili nell'ordine di vari miliardi di euro. A questi devono essere aggiunti i costi per i singoli agenti economici derivanti dall'adattamento al nuovo sistema. E i vantaggi? Questi sono individuati nel contributo che la moneta unica potrà dare al completamento del mercato unico interno. Partito a metà degli anni '80, il programma di creazione di un mercato unico europeo avrebbe dovuto essere completato entro la fine del 1992. A tutt'oggi i mercati di vari prodotti rimangono però poco integrati a livello europeo. Segnale di questo è la differenza di prezzo che uno stesso prodotto ha in diverse località europee: il prezzo di un litro di latte varia da 0.67 euro in Portogallo a 1.22 euro in Italia, il prezzo dello stesso televisore a colori varia da 543 euro in Finlandia ai 1049 euro in Lussemburgo, e cosi via. La diversa tassazione spiega una piccola parte di tali differenze. La restante parte della spiegazione risiede nell'insufficiente concorrenza di mercato. La moneta unica, introducendo una maggior trasparenza nel confronto internazionale sui prezzi, dovrebbe aiutare a rendere più efficace la concorrenza ed a ridurre queste differenze. Affinché questo processo di convergenza si realizzi su scala generale sono necessarie però anche riforme alla regolamentazione dei mercati che vengano ad eliminare le residue barriere (si pensi alle difficoltà che scoraggiano l'acquisto di un'automobile in un altro stato dell'Unione Europea). Un ulteriore piccolo guadagno della moneta unica deriva dal fatto che, non dovendo più cambiare valuta all'interno dei paesi dell'area dell'euro, si risparmieranno le commissioni che in precedenza erano ad appannaggio delle banche. Più rilevanti potenzialmente sono i guadagni ed i costi che derivano dal completamento della fase precedente l'introduzione dell'euro: la fissazione dei tassi di cambio dal 1 gennaio 1999. Dal lato dei vantaggi si colloca l'eliminazione delle fluttuazioni dei cambi all'interno dell'area, che elimina il rischio di cambio per gli operatori economici e che riduce le tensioni monetarie tra i paesi partecipanti. Dal lato dei costi, troviamo la perdita di autonomia in relazione alla manovra del tasso di cambio e alla politica monetaria per le nazioni dell'area dell'euro. Gli economisti usano il termine di area monetaria ottimale (amo) per definire quel gruppo di paesi in cui i guadagni dalla fissazione irrevocabile dei tassi di cambio siano maggiori delle perdite. Molti studi empirici hanno mostrato che i paesi dell'UE non costituiscono un'amo. Allora? Altri economisti hanno risposto che il rapporto di causa/effetto deve essere rovesciato: è la stessa creazione di un'area con moneta comune che induce cambiamenti nella struttura economica tali da soddisfare i criteri di un'area monetaria ottimale. Difficile dirimere la questione.
Di certo c'è stata la volontà politica di generare un meccanismo che legasse irrevocabilmente la Germania agli altri partner europei. Sul fronte economico rimane il problema di come i paesi dell'area dell'euro saranno in grado di affrontare i costi dell'operazione. Il non soddisfacimento dei criteri di amo vuol dire che i vari paesi dell'area sono colpiti in maniera diversa da eventi economici eccezionali (ad esempio, uno shock petrolifero). Non avendo più a disposizione gli strumenti del tasso di cambio e della politica monetaria, i paesi più colpiti sono sostanzialmente indifesi (anche la politica fiscale è fortemente vincolata dal rispetto dei criteri di Maastricht). In questa situazione, le preoccupazioni potrebbero peraltro ridursi se in Europa si accelerassero i processi di creazione di maggiore concorrenza nel mercato dei beni e nel mercato del lavoro. Purtroppo, entrambi questi meccanismi non funzionano adeguatamente all'interno dell'area dell'euro. Ecco perché buona parte dell'attuale dibattito economico insiste sulla necessità di riforme strutturali che devono essere intraprese.
Avendo sullo sfondo questo quadro, ci si può fare una prima idea dei motivi che stanno dietro alla debolezza dell'euro. Contrariamente a molte previsioni provenienti dal continente europeo e a conferma di alcune previsioni provenienti da oltreoceano, l'euro negli ultimi 3 anni si è deprezzato di circa il 25% nei confronti del dollaro. Il confronto è con un'economia americana che nella seconda metà degli anni '90 é riuscita a far crescere il proprio prodotto interno lordo a tassi molto elevati e, soprattutto, ha sperimentato un livello di crescita della produttività mai sperimentato prima. A conferma dell'eccezionalità del fenomeno, i dati più recenti mostrano che, diversamente dai precedenti cicli, la crescita della produttività è continuata anche durante la fase di recessione economica. Dall'altro lato, abbiamo un'economia europea che ha sostanzialmente perso il treno degli anni '90 in termini di crescita della produttività, che ha una serie di problemi strutturali da risolvere e che è in procinto di affrontare sfide economiche e politiche. Tra le prime abbiamo l'allargamento a Est, che sottopone consolidati meccanismi di ridistribuzione del reddito a livello territoriale (programmi di sostegno per le aree depresse) e settoriale (sussidi all'agricoltura) ad una salutare riorganizzazione con il costo, però, di tensioni politiche all'interno dell'Unione Europea che alimentano un quadro di incertezza generalizzato. Tra le seconde, il dibattito tra chi ritiene che l'unione monetaria sia il punto culminante del processo di integrazione economica e chi, invece, considera l'euro un passo verso una più completa unione politica. Qualora prevalesse quest'ultimo approccio si ridurrebbero di molto le possibilità di un'aggregazione all'area dell'euro del Regno Unito, della Svezia e della Danimarca o dell'entrata nell'Unione Europea della Svizzera. Anche su questo fronte perciò osserviamo l'addensarsi di elementi che rendono incerto il futuro del quadro economico-politico europeo. E sappiamo quanto i mercati finanziari non gradiscano l'incertezza. E' probabile perciò che l'euro continui ad essere debole nel breve termine. E' questo un grave problema?
Un euro debole ha dei costi potenziali sul fronte inflazionistico, però l'inflazione in UE è ancora bassa.
Ha dei chiari vantaggi sul fronte competitivo. Ma questi non devono essere sovrastimati. Siamo entrati in una nuova fase: il grado d'apertura (peso delle esportazioni sul PIL) dell'UE è molto inferiore a quello delle singole nazioni che la compongono. Questo implica che i movimenti del tasso di cambio dell'euro hanno un impatto, nel bene e nel male, sulle economie nazionali molto inferiore di quanto avveniva con una variazione del valore della singola valuta nazionale. E avere una valuta forte non necessariamente implica avere un'economia sana: il Giappone insegna!

02/15/2002

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