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Sul "made in" per ora solo disaccordo

Nella confusione tra lotta alle contraffazioni e valorizzazione del prodotto italiano, la difficoltà a trovare un minimo comune denominatore per la difesa delle nostre produzioni.

La "sindrome cinese" non si è esaurita, ma intanto qualche rimedio si sta trovando. Non si tratta della Sars, ma del fenomeno delle contraffazioni, per il quale nei mesi scorsi era stato lanciato un allarme dai toni molto preoccupati, a volte addirittura apocalittici (ndr: un approfondimento su Varesefocus maggio 2004). L'Italia - si diceva - è invasa da prodotti falsi che, a costi irrisori, giungono soprattutto dai paesi dell'est asiatico, invadono il nostro mercato e spiazzano i prodotti "made in Italy". Un fenomeno certamente non nuovo, che tuttavia è diventato dirompente man mano che crescono le capacità produttive dei paesi emergenti. Ma attenzione: i falsi si fanno anche in paesi di più antica industrializzazione.
Questo è, in realtà, il primo risultato ottenuto dopo quell'allarme: la presa di coscienza, cioè, delle dimensioni e dell'articolazione del fenomeno. Una mappatura fondamentale per impostare la lotta ai falsi. Così, si è scoperto che la Cina non è la sola sul banco degli imputati. Con la Cina dove, peraltro, sono state annunciate misure governative contro il fenomeno, e con i paesi del sud-est asiatico, che sono in testa alla classifica, troviamo anche - secondo fonti della Guardia di Finanza - paesi del centro e sud America ma anche gli Stati Uniti. In Europa: la Turchia, la Spagna, il Portogallo, l'ex-blocco sovietico e, più recentemente, il Belgio e l'Olanda. E l'Italia? Sì, ci siamo anche noi e l'abbiamo sempre saputo. Ciò che è interessante è scoprire - come sostiene il Centro Studi sul Falso dell'Università di Salerno - che gli italiani si stanno trasformando: da produttori a grossisti. Al pari degli imprenditori legittimi, anche quelli che operano nell'illegalità stanno facendo i conti con la competitività. Importare prodotti falsificati dai paesi con bassi costi di produzione è più vantaggioso che fabbricarli nei sottoscala delle roccaforti del falso: i comuni della cinta vesuviana, l'hinterland milanese, la provincia di Prato e, da qualche tempo, anche il Piemonte e il nord-est. Dove, sembra, la falsificazione abbia raggiunto prodotti sofisticati: non più solo la griffe tessile e calzaturiera o l'oreficeria, ma ormai anche i prodotti chimici e i principi attivi destinati alla farmaceutica.
Recenti valutazioni dell'Ocse stimano che il fenomeno della contraffazione porti, nel mondo, ad un giro d'affari di circa 450 milioni di dollari l'anno. In Europa il business pare cresciuto nel triennio 1998-2001 addirittura del 900%. Per l'Italia, la stima oscilla tra 4 e 6 miliardi di euro. La Guardia di Finanza calcola solo 1,5 miliardi in base al volume dei prodotti sequestrati. Federconsumatori valuta che gli scambi di merce contraffatta rappresentino il 5-7% del nostro commercio estero, con una perdita di circa 200.000 occupati nel lavoro regolare.
L'allarme è dunque più che giustificato. E, come si diceva, qualcosa ha cominciato a muoversi. Innanzi tutto i controlli per far rispettare le leggi esistenti. Genova, Milano, Varese, Novara, Biella, Trento sono state interessate negli ultimi mesi da denunce all'autorità giudiziaria e sequestri di merci contraffatte da parte della Guardia di Finanza. In qualche caso le cifre sono da capogiro, come nel caso dei 500.000 capi di abbigliamento e delle 466.000 etichette. In altri casi, emerge una situazione di pericolo per la salute pubblica, come nel caso delle false batterie contenenti quantità di mercurio tre volte superiore a quella consentita. In altri ancora, l'attività della Guardia di Finanza funziona da deterrente, come nel caso dei torni cinesi falsificati esposti all'ultima Campionaria di Milano.
Poi, il mondo della rappresentanza imprenditoriale. Anche qui ci si sta attrezzando. Innanzi tutto per ottimizzare i rimedi che possono venire dalla applicazione delle leggi poste, attualmente, a tutela della proprietà intellettuale. Confindustria ha firmato una convenzione con l'Agenzia delle Dogane per rafforzare la collaborazione tra imprese e dogane onde monitorare e contrastare il fenomeno dei traffici di prodotti contraffatti, anche sfruttando le opportunità previste dall'ultima Finanziaria che prevedevano di incentivare il dialogo telematico tra imprese e sistema doganale. Ed è previsto anche un accordo con la Guardia di Finanza per un'azione coordinata di contrasto ai prodotti falsificati. Il nuovo presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo ha poi insediato, subito dopo la sua elezione, un comitato tecnico per la tutela dei marchi e la lotta alla contraffazione, guidato da Giandomenico Auricchio. Il quale conosce bene il problema, sulla propria pelle: negli USA - ha ricordato ad un in contro di Indicam, l'istituto di Contromarca per la lotta ai falsi - le contraffazioni dei prodotti italiani coprono il 70% dei prodotti alimentari correttamente importati.
Infine, i progetti per rafforzare le difese attraverso nuovi accorgimenti, come l'obbligatorietà del marchio di origine dei prodotti. Un tema che si intreccia (e spesso erroneamente si confonde) con quello della valorizzazione del "made in Italy" e che risulta di non facile attuazione per via dei differenti punti di vista presenti nell'Unione Europea. E' solo quest'ultima, infatti, che ha titolo per legiferare in una materia che ha attinenza con il commercio internazionale. L'Italia, da sola, non può decidere. O, meglio, può decidere solo per il mercato nazionale, ma con tutti i rischi del caso. Lo ha dimostrato Federalimentare, con il ricorso in sede europea contro la legge sull'etichettatura dei prodotti alimentari che introduce l'indicazione obbligatoria sull'origine delle materie prime per i prodotti alimentari, determinando una discriminazione sul piano della concorrenza tra prodotti italiani e prodotti provenienti dagli altri paesi dell'Unione Europea ai quali tale norma non potrà applicarsi.
In Europa il nostro governo, accogliendo un suggerimento di Confindustria, ha inizialmente sostenuto la proposta di rendere obbligatorio il marchio di origine ("made in") sia per i prodotti importati, sia per quelli fabbricati in Europa. Ma non ha trovato consensi presso gli altri governi europei, specie tra quelli dei paesi nordici, le cui industrie sono generalmente più delocalizzate all'estero rispetto a quelle del nostro paese e non hanno quindi interesse alla marcatura d'origine. Inoltre, si è dibattuto su come dovesse configurasi tale marcatura, se dovesse cioè essere espressa sotto forma di "made in Europa" oppure facendo seguire al "made" l'indicazione del paese europeo dove il prodotto è fabbricato.
L'ipotesi del "made in Europa" sembra comunque essere tramontata e, ammesso che si riesca a trovare un accordo tra i paesi dell'Europa, l'ipotesi più probabile è quella dell'indicazione obbligatoria del paese di origine ma solo per i prodotti provenienti da paesi extra-UE e neppure per tutti, ma solo per quei prodotti per i quali tale obbligo venga richiesto dalle federazioni europee di settore. Tessili, calzaturieri, mobilieri, ceramisti e qualcun altro si sono già prenotati.
Insomma, un risultato parziale, ma pur sempre un risultato. Che sembra peraltro avvalorare la tesi che la tutela del "made in Italy" si deve fare giocare più d'attacco che in difesa. Con la qualità del prodotto.

Confindustria, una squadra a tutela del made in Italy

Nel nostro paese sta rinascendo "l'orgoglio del made in Italy" e non a caso tra le prime mosse del presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo c'è la costituizione di un pool, formato da quattro noti imprenditori del nostro Paese, che si occuperà di promuovere il made in Italy sui mercati di tutto il mondo. Componenti di questa specialissima "task-force" Andrea Riello, che seguirà da vicino la Russia e i mercati dell'Est Europeo, Adolfo Guzzini, che curerà i rapporti con il medio Oriente, Alessandro Benetton, che si occuperà del continente americano e seguirà gli aspetti riguardanti l'attrazione degli investimenti stranieri in Italia e infine Leonardo Ferragamo che avrà la responsabilità dell'Estremo Oriente. I quattro imprenditori, coordinati dallo stesso presidente Montezemolo, che ha tenuto per sé la delega sull'internazionalizzazione, si sono messi subito al lavoro con l'obbiettivo di favorire il radicamento delle imprese italiane nei mercati esteri. E un occhio di riguardo è stato dato subito alle aree emergenti come Cina, Russia, India e Turchia.

09/23/2004

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