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Elettricità, il futuro nel turbogas

L'evoluzione della tecnologia porta a considerare con sempre maggiore attenzione il turbogas a ciclo combinato come modalità di produzione dell'energia elettrica. Inquina poco, ha tempi di costruzione ridotti e una resa energetica eccellente.

la centrale a ciclo combinato di PrioloSempre più pulite, sempre più efficienti, sempre meno costose. I chilowattora sono sempre gli stessi da quando c'è l'elettricità, ma cambia la tecnologia per produrre energia e le centrali elettriche di oggi sono diversissime da quelle di un tempo nemmeno tanto remoto. Per cent'anni, la corrente si è fatta in due modi: usando la forza di caduta dell'acqua - in Italia sono ancora in perfetta efficienza e in produzione diversi impianti idroelettrici costruiti nell'Ottocento - oppure facendo bollire l'acqua per ottenere vapore con il quale far girare l'alternatore. Cambiava il modo di far bollire l'acqua (gas, carbone, legna, olio combustibile, uranio), ma il fondamento tecnologico era sempre lo stesso e il rendimento si aggirava sul 30%, mentre il restante calore andava dissipato dalla ciminiera e dalle acque di raffreddamento. La tecnologia della stufa e della pentola a pressione. Oggi invece è ormai sviluppata e consolidata una nuova tecnologia, quella del turbogas a ciclo combinato, la quale usa il metano (per sua natura poco inquinante) e che ha un'efficienza doppia rispetto a quella della centrale elettrica convenzionale: per produrre un chilowattora usa quasi la metà del combustibile. Inoltre, questa tecnologia - oltre che inquinare assai meno e a produrre di più - richiede tempi brevi di costruzione, ha dimensioni compatte, ha esigenze modeste di personale, non ha pretese alte sul fronte dell'investimento ed è "modulare": la produzione della componentistica è standardizzata.
Per questo motivo dopo i blackout dell'estate 2003, che hanno dimostrato la debolezza del sistema elettrico italiano, è sempre più forte l'esigenza del mondo imprenditoriale di dotarsi di impianti in qualche modo autonomi. I consumatori - industriali, artigianali, domestici - possono allearsi e costruirsi la loro centrale. E quindi suscita interesse l'idea lanciata di recente da Alberto Ribolla, presidente dell'Unione Industriali, di realizzare una centrale in provincia di Varese. Anzi, la "centrale dei varesini". Un'idea subito accolta da Marino Bergamaschi, direttore dell'Associazione Artigiani.
Non è questione di "autarchia energetica" in un mercato che non ha confini e che si sta dotando di strumenti come la Borsa dei chilowattora. Non si tratta di andare nel senso contrario a quello in cui si muove un'Europa nella quale i mercati elettrici nazionali oggi appaiono così ristretti da essere considerati mercati "regionali".
La questione è diversa. Lo ha mostrato il black out di fine settembre, quando la cittadina di Nola, alle porte di Napoli, ha riattivato la vecchia centrale elettrica alimentata con un grande motore diesel come quelli navali, una centrale vecchia di mezzo secolo ereditata dal Piano Marshall: quel 28 settembre, Nola e i comuni del circondario si sono slacciati dalla rete nazionale impazzita e hanno riacceso il vecchio impianto, diventando un'isola di luce in un Mezzogiorno al buio.
Oggi la tecnologia consente di puntare sulla "produzione distribuita", cioè sulle centrali locali. Al servizio della comunità. Inserite nella grande rete elettrica, producono per il paese e i loro chilowattora possono anche essere esportati. Ci può essere il piccolo impianto condominiale o rionale, quello già più grande al servizio di una zona artigianale o industriale, oppure centrali di ambito più grande, per esempio al servizio di un'area provinciale.
La sfida si gioca sui rendimenti del turbogas a ciclo combinato e degli impianti a carbone. Le efficienze sono sempre più alte, le turbine sempre più grandi. Ormai, il 70-75% degli impianti ordinati nel mondo e in realizzazione sono a ciclo combinato, la tecnologia vincente per due semplici motivi: i tempi di costruzione e l'investimento richiesto sono molto più ristretti rispetto alle altre tecnologie; il payback è assai più veloce. In un settore che si va liberalizzando, sono le condizioni di fondo.
La potenza istallata nel mondo è pari a circa 3,5 milioni di megawatt, con una produzione di 15.500 miliardi di chilowattora annui. Di questi, circa il 39% è prodotto dalla combustione del carbone, il 19% con il gas, il 16% con la grande produzione idroelettrica, il 16% con il nucleare, l'8% con l'olio combustibile e meno dell'1,6% dalle fonti rinnovabili. Secondo l'Agenzia internazionale dell'energia (Aie), nel 2030 lo scenario più probabile parla di una produzione di circa 31.500 miliardi di chilowattora così suddivisi: 37% carbone, 32% gas, 12% idroelettrico, 9% nucleare, 4% olio combustibile e 5% rinnovabili. Il carbone resterà dominante e ci sarà una fortissima crescita del gas. Olio combustibile e nucleare subiranno una drastica riduzione in termini di peso relativo (resteranno sulla stessa produzione di oggi), penalizzati dai costi insostenibili. In termini di nuove centrali, è prevista da oggi al 2030 la costruzione di 4.500 gigawatt, di cui ben 3.500 gigawatt (quasi l'80%) in impianti a gas e carbone, e di cui 2.000 gigawatt saranno con la tecnologia del turbogas a ciclo combinato. Nel segmento della tecnologia tradizionale del vapore si punta sull'innalzamento dei rendimenti, con le nuove turbine ultra-super-iper-critiche. Le temperature e le pressioni del vapore sono molto più alte del convenzionale, e il rendimento sale al 48-50% nelle migliori realizzazioni. In genere, questa tecnologia si affronta per le centrali a carbone di nuova concezione. Mentre il turbogas a ciclo combinato può avere anche taglie contenute (la taglia classica è 400 megawatt, modulabile in più unità gemelle a 800 e 1.200 megawatt, ma vi sono impianti di tutte le taglie, anche piccolissime, secondo le esigenze), le centrali a carbone per essere economicamente sostenibili richiedono dimensioni rilevanti, non meno di 1.500-2.000 megawatt, e quindi investimenti massicci. Si prestano per i piani di produzione delle grandi società elettriche, le quali possono gestire gli acquisti internazionali di carbone e possono affrontare con maggiore facilità i tempi lunghi di costruzione, gli impegni finanziari rilevanti e i tempi allungati di payback tipici delle imponenti centrali a carbone. Non si parla di carbone sotto i 1.500-2.000 megawatt, mentre il turbogas a ciclo combinato marcia senza fatica a 400, 800 e 1.200 megawatt. E il tanto decantato nucleare? Il blackout statunitense di Ferragosto e quello italiano di settembre hanno mostrato che quando salta la rete si zittisce anche l'atomo. L'energia nucleare non è nemmeno poco costosa quando entrano nella bolletta le spese spaventose della gestione delle scorie e delle dismissioni delle centrali. Il caso di Scanzano Jonico dovrebbe insegnare qualcosa. L'atomo diventa economicamente sostenibile solo se si fanno decine di reattori-fotocopia, come accade in Francia (che per motivi di politica economica ha tolto dalla bolletta i sovraccosti, aggravando però la fiscalità generale), e dove c'è la sinergia con il settore della difesa. Due esempi per tutti, quello degli Stati Uniti - che non costruiscono centrali nucleari da quando la liberalizzazione ha messo a nudo i costi e quello dell'Iran, paese che si sta dotando di centrali atomiche non certo per finalità economiche, visto che dispone di mari di petrolio a costo zero.

01/15/2004

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