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Una Finanziaria elettorale? Ogni buon padre di famiglia sa che, quando si hanno entrate straordinarie, non si può innalzare stabilmente lo standard di vita. Ai tagli fiscali non si guarda in bocca. Etichettare questa Finanziaria come elettorale è riconoscere una lapalissiana verità: perché è l'ultima manovra di questa legislatura, cioè quella che precede il rinnovo del Parlamento. Infine, è legittimo ritenere che questa manovra coroni un percorso, un programma politico di risanamento finanziario portato avanti lungo l'intera legislatura, culminato con la partecipazione all'Unione monetaria e proseguito con una crescente restituzione di imposte. Non ha torto, perché questa restituzione non fa che mantenere la pressione fiscale dell'intera pubblica amministrazione (misurata escludendo le entrate extra-tributarie) là dove sarebbe comunque stata senza la manovra. Infatti, le proiezioni a legislazione vigente, cioè prima degli interventi, dell'ultimo Documento di programmazione economica e finanziaria davano un 41,1% del Pil nel 2004 (contro il 43,3% del '99). Ciò vuol dire che la riduzione è spontanea e non deriva da correzioni nella composizione e nel livello di entrate e spese del bilancio: semplicemente il Governo si è trovato in cassa quest'anno un eccesso di incassi (“il malloppo”, come l'ha chiamato l'opposizione) e lo ridà indietro. Ed è il lato qualitativamente debole della Finanziaria: non coprire le minori entrate con misure di correzione delle spese. Questa lacuna ne porta con sé un'altra: impedisce di inserire i tagli in un programma pluriennale, che dia una chiara prospettiva di continuo e graduale alleggerimento delle imposte. In questo modo, la manovra appare come un una tantum, per giunta non sostenibile nel tempo. E ciò, come ha più volte sostenuto Confindustria, ne mina la credibilità presso i cittadini, imprese e famiglie, che quindi sono indotti a non modificare in modo sostanziale e sostanzioso i loro programmi di spesa. Proprio perché temono che, avendo il Governo scantonato la spinosa riduzione della spesa pubblica, le imposte dovranno poi essere riaumentate. Se ciò accadesse, si affloscerebbe nuovamente la crescita e si accentuerebbe la caduta di competitività delle aziende. Peraltro non molto aiutata dalla composizione dei tagli fiscali: perciò è giustificata la richiesta, avanzata da Confindustria, di una più coraggiosa diminuzione dell'Irpeg, inizialmente al Sud, ma in seguito in tutto il Paese. A rafforzare quel timore c'è una doppia e cruciale considerazione. Anzitutto, il sospetto che una parte dei tagli abbia una copertura fragile e che le tendenze già in atto della spesa pubblica (specie quella degli enti locali) siano tali da non consentire di rispettare l'obiettivo di deficit pubblico l'anno venturo. In secondo luogo, le maggiori entrate appaiono come il frutto non di un innalzamento strutturale del prelievo, quanto della migliore congiuntura. Se ciò è vero, al primo peggioramento del ciclo economico il deficit tornerebbe ad allargarsi rapidamente e occorrerebbe approntare un rapido aggiustamento. Ogni buon padre di famiglia sa che, quando si hanno entrate straordinarie, non si può innalzare stabilmente lo standard di vita. L'impiego migliore di tale manna è il risparmio, in vista di tempi peggiori. | ||||||||
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