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Che cosa scambiare nei prossimi contratti collettivi

Alberto Ribolla, Presidente dell'Unione degli Industriali della Provincia di VareseNel nostro paese si avvicina una stagione di rinnovi per diversi contratti collettivi di lavoro. Come accade alla vigilia di ogni tornata contrattuale, la trattativa si annuncia difficile e carica di insidie e le distanze che separano le richieste sindacali dalle disponibilità appaiono difficilmente colmabili. Ma l'esperienza ci testimonia che, alla fine, un accordo si farà.
Questa consapevolezza, tuttavia, non è sufficiente per rasserenare gli animi, poiché la congiuntura economica è così difficile che si avverte la necessità di un buon contratto e non di un contratto qualsiasi.
Si sente discutere molto degli effetti dell'introduzione dell'euro, di salari reali e di salari nominali, di inflazione e degli indici con cui misurarla: se quelli ufficiali o, invece, altri che ne indicherebbero una più alta: l'inflazione "percepita" o, come vorrebbero altri, quella "attesa". Si tratta di questioni importanti che non possono certo essere eluse, ma non sono le uniche questioni di cui un buon contratto debba occuparsi.
Occorre, infatti, discutere anche di come conciliare la domanda di aumenti consistenti delle retribuzioni con le attuali difficoltà delle imprese. Ci sono, da un lato, aspettative di non poco conto da parte sindacale e, dall'altro, preoccupazioni fondate da parte delle imprese sul fronte della competitività aziendale. Che viene continuamente erosa da costi che le aziende italiane sopportano in misura maggiore rispetto ai propri concorrenti stranieri (energia, fisco, oneri sociali, ecc.) e dalla sempre più stringente concorrenza di un mercato globalizzato. Come rispondere a queste pressanti istanze in un'economia in sofferenza?
E' evidente che non può essere sufficiente ridurre il confronto agli aspetti retributivi. Ne sortirebbe un contratto collettivo senza prospettive, un contratto che "conta soldi", piuttosto che creare le condizioni per generarli. Si preannuncia, invece, un tentativo del sindacato di rivedere al ribasso, attraverso lo strumento del contratto di lavoro, i margini di flessibilità introdotti dalla recente legge di riforma del mercato del lavoro, la cosiddetta legge Biagi. Rispetto a questi due grandi temi occorre, da una lato, dirsi con chiarezza che gli aumenti della retribuzione devono andare di pari passo con gli incrementi della produttività e, dall'altro, rimarcare che la dichiarata contrarietà di una parte del sindacato alle nuove forme di lavoro flessibile, introdotte con l'intento di favorire nuove opportunità di occupazione e di aiutare anche per queste via le imprese a ritrovare margini di competitività, appare in controtendenza rispetto agli orientamenti che i sindacati di altri paesi stanno assumendo, proprio nella condivisa preoccupazione per la perdita di competitività dell'industria europea.
In Germania si stanno facendo accordi aziendali che prevedono più lavoro a parità di salario. In Francia è in atto un solenne dietrofront sulle celebri "35 ore" introdotte a fine anni '90. Lavorare di più, per lavorare tutti, sembra essere diventato il nuovo slogan di riferimento cosicché, di fronte ai pericoli di una delocalizzazione delle produzioni, il principio delle 35 ore sembra appartenere ad un passato da dimenticare.
Col senno di poi, sarebbe logico attendersi un'autocritica da parte di qualche politico e di qualche sindacalista italiano, tanto più ricordando che sul "sacro" principio delle 35 ore è caduto proprio un governo di questa Repubblica.
Speriamo che nei prossimi contratti collettivi di lavoro si faccia tesoro di queste esperienze, vecchie e nuove.
Alberto Ribolla

11/18/2004

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