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Se il dollaro va giù

Finalmente possiamo registrare molteplici segnali di ripresa nell'economia, che fanno ovviamente ben sperare. Germania e Francia sembrano aver imboccato la strada della ripresa con più decisione, l'Italia meno. Da qui la cautela che ancora pervade il clima di opinione sia dei nostri operatori economici, sia dei consumatori. Dall'ultima indagine congiunturale svolta in provincia di Varese dall'Unione Industriali risulta, in sintesi, che i volumi produttivi sono, anche se leggermente, in crescita ma che gli imprenditori stentano a credere ad una ripresa robusta. Del resto, le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale dicono che nel 2004 il PIL dovrebbe crescere del 4,6% negli USA, del 7,3% in Asia e solo del 2% in Europa.
Soffriamo, indubbiamente, per la concorrenza agguerrita dei nuovi competitors, ma altrettanto per lo squilibrio tra la quotazione dell'euro e quella del dollaro. Il Centro Studi di Confindustria ha stimato che, in presenza di un'ulteriore svalutazione del dollaro rispetto all'euro del 10% nei prossimi tre anni, si determinerebbero conseguenze drammatiche per l'economia europea: il PIL avrebbe una caduta di 2 punti percentuali e l'occupazione lascerebbe sul campo quasi un milione e mezzo di lavoratori.
E' evidente che non ci si possa rassegnare ad una tale prospettiva. Per questo, la Banca Centrale Europea deve assolutamente ridurre il costo del denaro (fermo al 2% dal giugno 2003) per riequilibrare il cambio con il dollaro, tanto più considerando che gli USA continueranno a far leva sul calo della loro moneta per aggiustare i pesanti squilibri del proprio bilancio pubblico causati, anche, dal proprio impegno militare in Iraq.
La precedente gestione della Bce si è caratterizzata da un assoluto immobilismo giustificato, ma solo in parte, dalla necessità di evitare un sussulto inflazionistico proprio in coincidenza con l'introduzione della moneta unica europea. Oggi, il nuovo governatore Trichet sembra essere più interventista del suo predecessore Duisemberg. In effetti, non si capisce perché la Bce non possa giocare d'anticipo come la Fed americana.
L'ordine di priorità è cambiato. Prima, in Europa, a spaventare era l'inflazione. Ora, si deve puntare alla crescita economica e all'occupazione.
La manovra monetaria, peraltro, è uno strumento di carattere contingente. Resta, in tutta la sua evidenza, il problema centrale dell'industria europea e, ancor più, di quella italiana: la scarsa competitività dovuta a fattori che non dipendono dall'organizzazione aziendale (pressione fiscale, oneri sociali, costo dell'energia, carenze infrastrutturali e altro ancora) e ad una ancor bassa incidenza dei settori high-tech nel panorama produttivo (scarsi collegamenti industria/università, scarsi incentivi alla ricerca, ecc.).
In questo scenario complesso si innesta un altro problema di attualità: come fronteggiare il divario crescente tra costo della vita e retribuzioni senza che si inneschi una spirale perversa prezzi-salari che comprometterebbe, ancor di più, la competitività del nostro sistema produttivo. A tale proposito, occorre recuperare il valore e la pratica della cosiddetta “politica dei redditi”. Ma deve essere chiaro fin da ora che, al tavolo della concertazione, lo Stato sarà chiamato fare la propria parte riducendo imposte e contributi sociali e non potrà certo limitarsi a svolgere un semplice compito di mediazione tra le parti sociali. Il problema vero, infatti, è quello di restituire, da un lato, capacità di spesa alle famiglie e, dall'altro, competitività alle imprese.
Fino ad ora, dobbiamo registrare che segnali in direzione di un alleggerimento significativo, non solo simbolico, di imposte e contributi, non se ne vedono.

02/19/2004

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