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Spagna chiama Europa

Come dopo l'attentato alle Torri Gemelle, come dopo quello a Nassirya, così anche dopo la strage di Madrid dell'11 marzo ci siamo tutti idealmente stretti intorno alle vittime sentendoci colpiti e feriti come in prima persona. Con una differenza tuttavia: forte probabilmente dell'inattesa vittoria elettorale socialista in Spagna, il popolo dei “pacifisti” è uscito allo scoperto, in diversi paesi del mondo, per invocare il ritiro delle truppe dall'Iraq.
Ciascuno è libero di credere quel che vuole riguardo alla vicenda irachena e ogni opinione è legittima. Quello che spiace è constatare, ancora una volta, la divisione esistente tra i governi degli stati che aderiscono all'Unione Europea. Attenzione: non la divisione tra le diverse correnti di pensiero, ma l'assenza di fatto di una politica estera unitaria. Che deve essere, come in tutta l'attività politica, l'espressione della volontà generale.
Di conseguenza, ecco i telegrammi di cordoglio, ecco le visite lampo a Madrid per scendere in piazza insieme al popolo spagnolo, ecco i tre minuti di silenzio in tutta Europa. Poi?
Di nuovo ognuno per la propria strada.
L'Europa non può ridursi ai compianti. Non può essere unita solo nei tre minuti. Se vuole contare di più nello scenario internazionale non può fare a meno di darsi un profilo alto e forte in politica estera. E così anche sul fronte della sicurezza interna, come probabilmente la serie di attentati dell'11 marzo insegna.
E' un'Europa fragile quella che si sta mostrando di questi tempi. E lo è, paradossalmente, anche in quel campo, l'economia, nel quale è sorta ed è cresciuta in questi suoi primi cinquant'anni di cammino verso l'unificazione. Lo dimostra quel che sta accadendo nelle proprie relazioni commerciali con il resto del mondo, Cina in testa. Dapprima col subire gli attacchi sferrati a suon di prodotti industriali contraffati, poi, dopo pochi mesi, con l'essere tagliata fuori da forniture di materie prime e di semilavorati che stanno creando grandi difficoltà alla nostra siderurgia e meccanica.
La causa è dovuta in buona parte alla forte domanda interna della Cina e degli altri paesi asiatici, che hanno imposto dazi all'esportazione di minerali ferrosi. Ma il problema, appunto, è comune a tutt'Europa ed è curioso che, a distanza di poche settimane, ci si ritrovi a parlare di Cina per una questione diversa da quella dell'invasione di prodotti a basso costo. E' la dimostrazione di quanto grande sia la complessità racchiusa nel fenomeno della globalizzazione ma, proprio per questo, anche di quanto poco incisiva sia la strategia che l'Unione Europea è in grado di mettere in campo. Anzi, viene da domandarsi se si possa parlare di strategia: né sul piano del cambio euro/dollaro, infatti, né su quello del commercio internazionale stiamo assistendo a comportamenti in grado di tutelare al meglio il sistema produttivo europeo. Anzi, scontiamo addirittura le conseguenze di politiche economiche del passato che non sono state sufficientemente protese a rafforzare l'industria. L'Europa si è fin troppo occupata di agricoltura e troppo poco di politica energetica, di politica dell'innovazione, di politica estera.
L'Europa va rafforzata, credendoci. Non deve diventare il capro espiatorio di mali interni agli stati membri (come è accaduto nel recente passato anche, ma non solo, da parte della politica italiana) e deve invece diventare abitudine per tutti, dopo il doveroso confronto di opinioni, quella di accettare le posizioni della maggioranza e di considerare il loro perseguimento come interesse comune. Occorre smetterla di dividersi per trovare invece, sempre, una base di accordo. Non solo sui tre minuti di silenzio.
Antonio Colombo

03/25/2004

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