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All’alba di una nuova legislatura ecco il piano di politica industriale che Confindustria propone al Paese e ai suoi rappresentanti per i prossimi cinque anni. Non richieste, ma un programma concreto da 250 miliardi che, per ogni impiego e investimento, indica dove reperire le risorse. Obiettivo: una crescita del Pil del 12% da qui al 2022

"Un politico pensa alle prossime elezioni, un uomo di Stato alle prossime generazioni”. La celebre frase del teologo statunitense James Freeman Clarke fa di Confindustria lo statista in questione. Quello che, all’alba di una nuova legislatura, propone alle forze politiche un programma concreto e realizzabile che vada oltre le promesse, più o meno capestre, di una campagna elettorale che ha lasciato poco spazio alla questione industriale. Finita la competizione, si apre, però, la sfida di governare un Paese. Ed in questa fase, ancor più che in quella dello scontro all’ultimo voto, che torna utile, per la visione dell’Italia da qui ai prossimi 5 anni, il documento uscito dalle Assise Generali di Confindustria tenutesi a metà febbraio a Verona. Una vera e propria agenda di politica economica di medio termine, frutto di un’opera di consultazione e raccolta di proposte di migliaia di imprenditori. Non una serie di auspici e di semplici richieste. La lista della spesa non c’è nel documento. Semmai ci sono vere e proprie leve di sviluppo su cui investire e obiettivi da raggiungere. Come gli 1,8 milioni di posti di lavoro da creare da qui al 2022; la riduzione di 20 punti percentuali del rapporto tra debito pubblico sul Prodotto Interno Lordo; la crescita del Pil di 12 punti percentuali, con aumenti, quindi, superiori al 2% ogni anno; la crescita dell’export italiano superiore alla domanda mondiale.

Le solite promesse, come tante se ne sono sentite negli ultimi mesi, si dirà. No, non è nemmeno questo. Il documento di Confindustria non può essere paragonato a un programma politico, intendendo come tale, una copia, seppur diversa nei contenuti, di quelli proposti dai vari partiti e movimenti che si sono confrontati durante la campagna elettorale. Perché qui la differenza è che per ogni impiego o investimento è indicata la copertura. Per ogni azione da fare, è indicato dove poter trovare i soldi. Non proprio un fattore scontato di questi tempi. Partiamo dunque da qui. Dove Confindustria suggerisce di prendere le risorse necessarie per finanziare un’agenda economica dal valore di 250 miliardi? Dal contrasto all’evasione come promesso da più di un esponente politico? Sì, anche. Per Confindustria, ad esempio, una forte e concreta azione potrebbe portare nelle casse dello Stato 45 miliardi. Ma non è questa la voce più innovativa.

In realtà, infatti, a scardinare la sindrome italiana della coperta corta, secondo Viale dell’Astronomia, potrebbero essere gli Eurobond. Tra euroscettici ed europeisti, Confindustria si schiera, anche con questo documento, apertamente per l’Europa. Ma non è un’adesione ideologica. L’agenda propone qualcosa di concreto a chi, sia tra i primi, sia tra i secondi, afferma che ci sia qualcosa da cambiare nelle stanze di Bruxelles. Sì, ma cosa? Ecco qui c’è una proposta precisa da parte di Confindustria: “In Europa, dove l’Italia dovrà giocare un ruolo da coprotagonista - si legge nel documento delle Assise - si prevede la nomina di un ministro delle Finanze indipendente dagli Stati membri che abbia la responsabilità, tra l’altro, di emettere Eurobond finalizzati al finanziamento di progetti comuni e dunque a vantaggio di tutti i Paesi dell’Unione ai fini di una maggiore integrazione”. Una riforma che potrebbe valere per l’Italia 58,5 miliardi in 5 anni a sostegno della crescita.

         

Altro importante cardine dell’Agenda confindustriale fortemente innovativo è la compartecipazione dei privati alla spesa pubblica, stimata in 24,4 miliardi: “Occorre passare - scrive Confindustria - da uno Stato mero erogatore di servizi a uno Stato promotore di iniziative di politica economica. In questo contesto s’inquadra la proposta di assegnare una funzione redistributiva alla spesa pubblica attraverso la compartecipazione dei cittadini ai servizi offerti in modo progressivo rispetto a reddito e patrimonio”.

Piedi per terra anche sul fronte spending review con cui Confindustria si aspetta di poter generare 51,1 miliardi di risorse, intervenendo su una spesa pubblica di 360 miliardi, anziché sugli 800 complessivi, con “risparmi di efficienza strutturale dell’1% all’anno. Un obiettivo chiaramente alla portata di mano”. E poi ancora valorizzazione di immobili pubblici, coinvolgimento dei fondi pensione ed assicurativi: totale 250 miliardi da mettere a disposizione. Sì, ma per fare cosa?

Si parte dalle infrastrutture dove Confindustria suggerisce di investire 15 miliardi. Altri 16,7 miliardi andrebbero per la riduzione del debito pubblico, mentre 18,3 servirebbero per innovare la pubblica amministrazione. La voce più consistente è, però, quella della riduzione premiale del costo del lavoro dove Confindustria suggerisce di impiegare 36 miliardi. Di 9 miliardi quelli da destinare agli incentivi fiscali per gli investimenti in industria 4.0. L’azzeramento degli oneri sui premi di risultato potrebbe, invece, valere 6 miliardi. Non solo: la manovra quinquennale di Confindustria permetterebbe una riduzione della pressione fiscale per un valore di 17,2 miliardi. Altri interventi fiscali per 12,8 miliardi sono quelli suggeriti per promuovere la previdenza complementare, il made in Italy nel mondo e l’Iva agevolata sugli scarti a favore dell’economia circolare.

Interessante anche il passaggio sull’immigrazione, argomento chiave dell’ultima campagna elettorale. Anche qui, però, le posizioni ideologiche vengono lasciate ad altri. Anche concetti condivisibili, come quelli riassumibili con lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, prendono la forma di una bozza di politica industriale internazionale condivisa: “Si può allora favorire - propone Confindustria - un partenariato industriale per il co-sviluppo delle Pmi europee e africane, incentivando la crescita delle imprese italiane in Africa in collaborazione coi governi locali”. E, con gli stessi, “realizzare programmi formativi per preparare gli immigrati a lavorare in Italia”. Il concetto è: “Una più stretta collaborazione tra le Pmi italiane e africane consentirebbe un utilizzo più proficuo dei fondi per la cooperazione in chiave di sviluppo industriale dell’Africa”. Insomma, basta parole, passiamo ai fatti.



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