Il bene può essere una leva competitiva per le aziende. Ne è certo Massimo Folador, docente di Business ethics della LIUC-Università Cattaneo

‘‘Per lei sarà difficile scrivere questo articolo e per i suoi lettori sarà ancora più complesso comprenderlo”. L’incipit non è dei più promettenti, ma l’obiettivo merita quanto meno di provarci: quando un’impresa si può definire buona? Quando un’azienda riesce a fare del bene? Massimo Folador, docente di Business ethics alla LIUC – Università Cattaneo, ha provato a dare una risposta nel suo ultimo libro, uscito in queste settimane, intitolato “Storie di ordinaria economia”. Quasi 160 pagine che raccolgono 24 racconti di imprese etiche che hanno fatto della rincorsa al bene un motivo di esistenza. Esempi che Folador ha illustrato con una serie di articoli scritti per le pagine di economia del quotidiano Avvenire e oggi riproposte nel volume edito da Guerini Next. “Il problema, però, è definire il bene. Non basta certo essere dei mecenati o organizzare raccolte fondi per fare della carità per poter definire buone delle aziende”. L’equivoco in questi casi è sempre dietro l’angolo: “Siamo arrivati al punto di dover stigmatizzare il concetto di responsabilità sociale d’impresa”. Troppi gli equivoci che si sono stratificati nel tempo.

I punti in comune tra le “imprese buone”: la responsabilità sociale verso le persone e il capitale umano, la tendenza a cooperare, la relazione con il territorio e la comunità

Occorre dunque ripartire dall’ABC. Folador, nello spiegare a Varesefocus le conclusioni del suo libro, chiarisce subito che la ricerca del bene comune per un’impresa che voglia perseguire una responsabilità sociale non può essere un orpello. Non sono buone, tanto per chiarire, quelle imprese che, essendo in forte crescita e viaggiando con trend positivi cercano di restituire qualcosa alla società, sottoforma di carità, perché hanno risorse in abbondanza e ne destinano una parte per una donazione ad una scuola, o per un’opera benefica sul territorio. Semmai è vero il contrario. Fanno del bene alla comunità quelle aziende che vedono “nell’etica un motore fondamentale nella propria strategia d’impresa”. Come una chiave competitiva al pari di un investimento in un nuovo macchinario o su un mercato estero.

Folador è giunto alla conclusione che le realtà raccontate nel suo libro siano competitive proprio perché sono in grado di combinare “la produzione di valore economico, con la generazione di valore sociale”. Come due elementi di un unico corpo che non potrebbe vivere senza entrambi le componenti. 

“Molti degli imprenditori che ho studiato e raccontato in questi anni fanno del bene e impostano politiche etiche di gestione delle imprese senza neanche accorgersene, senza neanche sapere che le loro iniziative potrebbero essere riconducibili ai canoni della responsabilità sociale d’impresa”. Sono buone perché non sanno essere diverse da così. Con vantaggi per tutti. In primo luogo per le performance economiche. Le imprese che sono riuscite a superare indenni la crisi, facendo da contraltare all’andamento generale negativo dell’economia, hanno quasi sempre degli elementi che le collegano, secondo Folador. “Nell’ambito delle attività sulla Business ethics in LIUC le abbiamo sintetizzato in tre aree distinte e complementari: la responsabilità sociale verso le persone e il capitale umano, la tendenza a cooperare, la relazione con il territorio e la comunità”.

Lo testimoniano gli esempi delle imprese intervistate da Folador, alcune delle quali della provincia di Varese. Come la Nau! di Castiglione Olona che il docente della LIUC definisce “una realtà imprenditoriale tra le più innovative oggi in Italia nel mondo dell’occhialeria”. Nel libro Fabrizio Brogi, Presidente dell’azienda racconta: “Volevo costruire un’impresa originale, più a misura di uomo, a mia misura, dove il raggiungimento di un giusto valore economico fosse funzionale al conseguimento di altri obiettivi”. Una filosofia fatta propria dalla stessa Yamamay di Gallarate, la cui responsabile sviluppo e innovazione, Barbara Cimmino, ha declinato nel concreto con “l’attenzione all’unicità della persona e ai suoi tratti distintivi, la consapevolezza dei talenti presenti in ognuno e di come la loro valorizzazione possa fare la differenza nel lavoro di ogni giorno”. 

Marco Girardo, giornalista di Avvenire: “Tanti uomini di impresa nell’era della dematerializzazione dello scambio, provano a riaffermare la centralità della relazione, a partire dall’organizzazione del lavoro”

Nelle strategie di Yamamay e di Nau! di porre al centro dell’impresa etica una nuova idea del lavoro c’è molto del racconto che emerge dal libro di Folador. Nell’introduzione lo spiega bene Marco Girardo, direttore delle pagine di economia di Avvenire, che insieme al professore della LIUC ha ideato quella rubrica da cui è poi scaturito il volume: “Tanti di questi uomini di impresa nell’era della de-materializzazione dello scambio, provano a riaffermare la centralità della relazione, a partire dai processi e quindi dall’organizzazione del lavoro”. In altre parole, continua il giornalista di Avvenire: “Nel profondo delle persone che gestiscono realtà produttive, cercando di farne il bene, si può individuare un atteggiamento molto radicato, un convincimento che la prosperità e lo sviluppo della propria azienda e il benessere e la felicità dei propri collaboratori, delle loro famiglie e del territorio, siano un tutt’uno o quanto meno profondamente legati”.

Realtà che, consciamente o inconsciamente, spiega Folador, hanno fatto proprio il motto benedettino “Ora et labora”. Un filone di studio che il docente della LIUC coltiva ormai da anni: “Le sfide che i monaci avevano perseguito nei secoli sono simili a quelle che oggi alcune aziende tornano ad affrontare con passione”. Ossia: “Il gusto di costruire un progetto che vada oltre il presente e di realizzare un’impresa che trascenda se stessa per porsi al servizio del bene più grande. Questi imprenditori e manager sentono, quasi istintivamente, il desiderio di dare un respiro più alto al loro agire, una finalità maggiore ai loro investimenti e, proprio per questo motivo, traggono forza, ciascuno con modalità proprie da quei valori che possono dare uno spirito e un’anima diversi al futuro. Valori spirituali”. Come quelli che muovevano San Benedetto e i suoi monaci. O come quelli che erano alla base dell’agire di Adriano Olivetti che lo stesso Folador cita più volte nel suo libro e nella nostra intervista: “Saremo guidati dai valori spirituali che sono valori eterni. Seguendo questi i beni materiali sorgeranno da sé, senza che noi li ricerchiamo”. Parole che padre Ubaldo Cortoni, monaco della comunità benedettina di Norcia colpita dall’ultimo sisma (a cui andrà una parte dei ricavati del libro), intervistato da Folador, così traduce oggi: “Quando l’uomo, chiunque esso sia, mette a frutto i propri talenti e li orienta, assieme ad altri uomini, verso il bene comune, l’approdo finale è sempre un atto creativo che genera bellezza e futuro”.

Illuminante, sotto questo punto di vista, ciò che dice a Folador don Michele Barban Presidente e fondatore della cooperativa sociale Gulliver di Varese, altra storia raccontata su Avvenire prima e riproposta nel volume poi: “Oggi la differenza tra un’impresa ‘profit’ e una ‘no profit’ si è molto assottigliata”. Questo perché sostiene Barban “ogni realtà produttiva qualunque essa sia nasce sempre come risposta ad un bisogno ed è la qualità di questa risposta che ne assicura il futuro. Un’azienda, così come una cooperativa sociale, deve sempre porsi questo obiettivo e far sì che la capacità di generare valore all’interno e all’esterno del suo ‘sistema’ si consolidi nel tempo”. 
Ecco, noi ci abbiamo provato a dare un senso alla definizione di azienda buona. Al lettore il giudizio se ci siamo riusciti o no. 

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