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Dal 2008 Elisa Carnelli opera della casa circondariale di Busto Arsizio dove ha avviato un gruppo di drammaterapia. Obiettivo: utilizzare un mezzo artistico per insegnare ai detenuti la bellezza e la sua capacità di trasformare le persone

Elisa Carnelli entra ed esce dal carcere di Busto Arsizio da una decina di anni anche se non ha mai commesso un reato. Dal 2008 infatti, dirige la compagnia di attori detenuti nella Casa Circondariale della città in provincia di Varese e ha avviato un gruppo di drammaterapia con i reclusi dell’Istituto. Questa esperienza le ha restituito una certezza: mai come in carcere il suo agire ha portato trasformazione. E se è vero che la nostra società vuole concepire il carcere come un luogo di trasformazione, il teatro e la drammaterapia diventano strumenti importanti che concorrono alla riabilitazione dell’immagine di sé e che aiutano i carcerati a immaginarsi e percepirsi in modo diverso. Elisa Carnelli ha portato la sua storia anche alla prima edizione di TEDxVarese, la conferenza TED diffusa in tutto il mondo e uno dei palchi più prestigiosi che danno spazio alle storie e alle idee di valore che meritano di essere diffuse.

Qual è la tua storia?
Arrivo da una laurea in lingue mai utilizzata con l’idea di fare l’insegnante. Ho iniziato la mia esperienza iscrivendomi all’accademia teatrale e facendo i primi spettacoli. Era un modo per mantenermi agli studi. Per anni ho fatto l’attrice ma poi ho cominciato a insegnare. Successivamente ho deciso di formarmi in drammaterapia a Lecco e durante questo percorso è cambiata la mia stessa idea di teatro, passando da strumento per raggiungere un fine a una pratica per lavorare sulla consapevolezza di sé, sulla relazione, sul benessere e sulla cooperazione. Dal 2008 poi è iniziata la mia avventura in carcere e nonostante le difficoltà siano molte e la macchina sia particolarmente farraginosa io credo nella possibilità che questa attività diventi un lavoro che unisca anche le mie competenze nella drammaterapia, grazie alle quali riesco a impostare attività insieme a un gruppo di psicologi.

“La drammaterapia può essere usata anche per lavorare sulla risoluzione dei conflitti o per promuovere la cooperazione e infatti si applica anche in ambito aziendale, nei settori della formazione e dell’educazione”

L’approccio della drammaterapia è particolare e forse poco conosciuto. Di cosa si tratta?
Si tratta di un approccio che nasce da alcune esperienze degli anni ‘70 nel mondo anglosassone in ambito universitario e di ricerca. La drammaterapia è utilizzata anche in ospedale. La riflessione di fondo è questa: il teatro è un mezzo artistico che può diventare strumento terapeutico e di cura. Vengono utilizzate tutte le tecniche del teatro, dalla narrazione ai pupazzi; dalle marionette al racconto tramite oggetti. I contenuti che fuoriescono riflettono il mondo interiore della persona. La drammaterapia può essere usata anche per lavorare sulla risoluzione dei conflitti o per promuovere la cooperazione e infatti si applica anche in ambito aziendale, nei settori della formazione e dell’educazione.

Parlando della tua esperienza in carcere, quale pensi possa essere la parola chiave che meglio descriva quello che fai?
Trasformazione, il continuo trasformare. Per esempio, prossimamente andremo in scena a Milano con quattro attori ma di questi uno rischia il trasferimento e quindi c’è sempre la possibilità che lo spettacolo sia da rimaneggiare coinvolgendo tutti gli altri e chiamandoli alla responsabilità. Andare comunque sempre avanti credo che sia un messaggio fortissimo, soprattutto in carcere, insieme all’idea di una trasformazione costante della vita. Ai detenuti è richiesta la presenza, la capacità di mettersi in mostra con responsabilità. Il teatro non nasce tanto con un fine artistico quanto dalla necessità profondamente umana di esserci e trasformarsi grazie alla bellezza. In carcere ci sono persone che non conoscono cosa sia la bellezza e quindi è molto facile che costruiscano un’idea di società che è criminogena. In questo senso, l’idea della trasformazione ti chiama a imparare a risolvere imprevisti e come individuo devi lavorare nell’architettare nuove strade e nuove soluzioni. Per chi vive in carcere, questo è importantissimo.

“Purtroppo i percorsi che vanno a buon fine non sono tantissimi e questo anche perché mancano tanti anelli nella catena del sistema riabilitativo del carcere”

Quando sei in carcere e fai teatro con i detenuti, quali sono i segnali della trasformazione?
Sono segnali molto semplici, lo vedi fisicamente. Abbiamo fatto un progetto fotografico e negli scatti dei detenuti puoi 
cogliere una trasformazione nei volti che acquisiscono nuova vitalità. Ho ben presente il ricordo di un ragazzo che in cella inghiottiva le lamette, ogni tanto il personale era costretto a sedarlo e quindi spesso aveva una faccia spenta. Per lui il teatro era diventato un appuntamento fisso e quando recitava diventava sicuro di sé. Con il passare del tempo ha smesso di diventare pericoloso e gli hanno persino assegnato un lavoretto di responsabilità. O anche un carcerato dalle dimensioni di un armadio e tutto tatuato che grazie alla drammaterapia riusciva a sfogare tutta la rabbia che conservava dentro di sé. Alla fine dell’esperienza, per descrivere il suo percorso ha usato la parola “armonia” e quindi capisci che qualcosa è successo. Purtroppo i percorsi che vanno a buon fine non sono tantissimi e questo anche perché mancano tanti anelli della catena del sistema riabilitativo del carcere.

Quanto è difficile fare il tuo lavoro in carcere?
Tanto, e spesso l’obiettivo di partenza diventa come una scalata in montagna. Molto spesso ho la sensazione che il pavimento mi crolli sotto i piedi ma nonostante tutto scelgo di crederci e di andare avanti. Da quando lavoro in carcere mi sono accorta che il fine del mio lavoro non è il senso estetico ma la bellezza di quel che succede. Mi spiego meglio: il nostro pubblico non ci applaude perché siamo dei prodotti artistici ma perché su quel palco avviene qualcosa. Parlo di sensazioni che si provano e vibrazioni che suscitano i miei attori. 

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi?
Come obiettivi ho quello di aprire il carcere come luogo di eventi. Mi piacerebbe riuscire a realizzare una sorta di stagione e rassegna teatrale nel panorama varesino, immaginandomi appuntamenti serali in carcere per fruire insieme di esperienze artistiche.

La tua soddisfazione più grande?
Lo spettacolo a Busto Arsizio di questa primavera, nel momento degli applausi con i ragazzi in scena. Erano bellissimi, di quella bellezza particolare, e il pubblico commosso si è alzato in piedi ad applaudire. In quel momento ti rendi conto di quanto il tema sicurezza in realtà non sia soltanto la costruzione di carceri ma in ultima analisi la cura delle persone. 



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