Quale deve essere il ruolo di padri e madri durante le gare, le partite e gli allenamenti? Qual è il modo giusto di stare in tribuna? Come rapportarsi con gli allenatori senza pericolose “invasioni di campo”? I consigli di una psicologa sportiva per fare dell’agonismo un momento di crescita educativa per tutta la famiglia

Le aspettative sportive dei padri e delle madri, ma anche i comportamenti oltre le righe sugli spalti durante le partite dei più piccoli, non ricadano sui figli. Non è semplice scegliere la disciplina sportiva e seguire con passione le gesta atletiche del proprio piccolo senza commettere inutili e dannose “invasioni” di campo. Valentina Resta, psicologa e psicoterapeuta, docente di Psicologia dello sport all’Università dell’Insubria di Varese, da anni segue sia atleti professionisti, sia realtà sportive giovanili, oltre ad aver lavorato con un’importante società di calcio di Serie A, in questa intervista prova a spiegare quale dovrebbe essere il giusto approccio di un genitore alla crescita, anche sportiva, di un bambino.  

Dottoressa Resta l’argomento è vasto e complesso. Partiamo dalle figure educative di riferimento. Come si dovrebbe comportare il “genitore perfetto” quando il proprio figlio “va in campo”?  Prima di tutto i papà e le mamme dovrebbero mettere da parte le proprie aspettative, ma anche le proprie frustrazioni sportive e ascoltare con maggiore attenzione e comprensione ciò che davvero desidera fare il proprio figlio. Il compito di un genitore non è imporre il tipo di disciplina sportiva da praticare, bensì stimolare il bambino a fare sport e scegliere la società sportiva che meglio rispecchia i principi e valori famigliari. Il secondo consiglio è quello di non invadere mai le competenze dell’allenatore. Un papà e una mamma devono essere i primi tifosi del figlio e della squadra in cui gioca. Ciò significa evitare i commenti tecnici, i giudizi sulle scelte fatte in campo dal mister e, alla fine di ogni allenamento e partita, parlare con il bambino dell’aspetto ludico e di quanto si sia divertito.

Facile dirlo, più complicato farlo, soprattutto quando si sta sugli spalti a guardare la partita… I figli di genitori che si rendono protagonisti in negativo di episodi violenti si vergognano dei loro padri. I bambini chiedono solo di giocare e divertirsi. Perdere o vincere, soprattutto a livello giovanile, non è l’obiettivo primario. Serve quindi consapevolezza da parte dei genitori, ma anche da parte delle società sportive.

In che senso? Una società, ogni società sportiva, dovrebbe spiegare in maniera chiara ai genitori se ha obiettivi solo agonistici o educativi. Non è una questione di giudizi, entrambi i modelli, infatti, sono leciti, ma spiegare a un papà o a una mamma qual è il modello di riferimento della società evita un sacco di fraintendimenti. Ci sono società, e parlo a livello generale, che dichiarano di puntare sull’aspetto educativo anche se in realtà l’obiettivo primario è l’agonismo. Fare chiarezza su questi aspetti al momento dell’iscrizione del bambino fa bene a tutti: ai genitori, ai ragazzi, allo staff tecnico, che non dovrà gestire la delusione dei famigliari e alla società.

E arriviamo al terzo pilastro importante della questione: l’allenatore. Un ruolo di grande responsabilità, anche quando in campo si va solo per divertirsi. Quali sono le difficoltà che ha riscontrato lavorando a stretto contatto con molte realtà sportive giovanili? La comunicazione e l’abilità di entrare in relazione con la squadra. Racconto un aneddoto. Mi è successo di vedere al lavoro un allenatore molto bravo che spiegava tattica e movimenti da eseguire in partita utilizzando la lavagna. Peccato però che i concetti, seppur corretti sotto l’aspetto teorico, risultavano incomprensibili ai bambini perché troppo piccoli, tant’è che sui loro volti c’era smarrimento. Ecco un allenatore dovrebbe imparare a trasmettere i concetti in base all’età dei bambini e per far questo dovrebbe conoscere le capacità di comprensione di chi ha davanti. In questo caso poter contare sull’aiuto di uno psicologo dello sport può essere di grande aiuto.

Un lavoro enorme, tanto più che uno dei quesiti al quale rispondere è: da dove partire? Scuola, famiglia e società sportiva. Questi tre ambiti, che poi sono quelli in cui un bambino passa la maggior parte della sua vita, dovrebbero iniziare a dialogare. Non stiamo parlando di tre ambienti a se stanti e sconnessi l’uno dall’altro, bensì di contesti in cui i principi da insegnare e gli obiettivi sono condivisi. Pensiamo alla scuola, che oltre alla didattica, dovrebbe insegnare l’impegno, la costanza, come costruire relazioni con i compagni di classe, a gestire il successo per un bel voto o la frustrazione per un’insufficienza. Princìpi questi che possiamo ritrovare nello sport. E se partiamo da questi concetti, il genitore diventa la cinghia  di trasmissione tra la scuola e la società sportiva.

In che senso? Un papà e una mamma attenti dovrebbero cogliere le difficoltà del figlio a scuola o nello sport e aprire un canale comunicativo tra insegnanti, società e allenatore. Vincere la paura di condividere le problematiche del figlio è il primo passo importante che può aiutarlo a superarle. Mi spiego meglio. Oggi molti bambini soffrono di disturbi specifici di apprendimento, ma spesso gli allenatori non vengono informati dalla famiglia, a volte anche solo perché non si ha la percezione di quanto invece sarebbe fondamentale comunicarlo. Un allenatore che conosce le difficoltà di un bambino, se formato, può mettere in campo le giuste strategie comunicative. Conoscere il problema e lavorare per risolverlo aiuta poi a diminuire il fenomeno dell’abbandono dello sport, spesso causato proprio dal fatto che un bambino non si sente compreso e non vede i suoi bisogni accolti.

 



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