Per i degustatori, il miele d’acacia “made in Varese” è di colore giallo paglierino, trasparente, leggermente ambrato, con gusto dolce e leggero aroma di confetto e vaniglia. È energetico e disintossicante, adatto a dolcificare il the, il caffè e lo yogurt, ottimo in pasticceria e nei bar per la colazione del mattino. L’ultima moda è utilizzare il vasetto colmo del delizioso nettare come bomboniera nei matrimoni.

  Il miele d'acacia dà lavoro a cento apicoltori professionali, altrettanti part-time e trecento hobbisti con 13 mila alveari e un giro d’affari di oltre tre milioni di euro

Compresa la produzione certificata, la resa annuale di tutti i mieli varesini (acacia, castagno, millefiori, tiglio e melata) è di 550 mila kg, per un valore commerciale di oltre tre milioni di euro. Non c’è male, anzi è davvero un bel gruzzolo. Il 40% viene venduto ai mercati rionali e nelle sagre di paese, un altro quaranta è consegnato in fusti ai confezionatori che lo etichettano a proprio nome e il resto finisce sui banchi della grande distribuzione, iper e supermercati di tutta la provincia. É qui che si gioca la sfida del prodotto di punta, il miele d’acacia Dop. Il vasetto unico da 450 grammi è tutelato dal Consorzio ed è stato adottato da dieci produttori. Ha l’etichetta gialla e nera con i dati indispensabili (peso, ragione sociale, lotto e scadenza). Costa al consumatore finale 9-10 euro in caso di vendita diretta, ma l’ultima parola spetta alla grande distribuzione che lo espone sugli scaffali.

“Dieci euro possono sembrare tanti, ma bisogna considerare che la stagione 2016, secondo anno di produzione Dop, è stata disastrosa, bersagliata dal maltempo nei giorni cruciali della fioritura e non ha prodotto miele certificato – spiega Maria Mineo, contitolare della storica azienda Luigi Soldavini di Lonate Pozzolo fondata nel 1923 –. In consorzio stiamo discutendo su che politica dei prezzi adottare. Per me la Dop deve avere un posizionamento alto per coprire i costi di produzione, la qualità e la sicurezza per il consumatore, le analisi e le verifiche dell’ente certificatore, la CCPB di Bologna, senza contare i costi agricoli dell’energia, dei trasporti e dell’Iva”.

Solo dieci aziende hanno adottato il vasetto che può fregiarsi della Denominazione di Origine Protetta, ottenuta nel 2014

Tutti i passi necessari per garantire la qualità sono stati fatti con l’aiuto della Camera di Commercio e delle associazioni di categoria. Nel 2014 sono arrivati il riconoscimento della Denominazione di Origine Protetta dalla Commissione Europea e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Il traguardo ha premiato gli sforzi di un settore economico in espansione grazie a cento apicoltori professionali, altrettanti part-time e trecento hobbisti con tredicimila alveari, più altrettanti in arrivo da fuori provincia a metà maggio quando fiorisce la robinia (gli allevatori “nomadi” vengono perfino dal Grossetano con sei, sette ore di viaggio).

Il riconoscimento internazionale dà più forza alle vendite. Un commerciante giapponese, per esempio, prima di importare un prodotto va a vedere l’elenco dei marchi protetti. Ma non è semplice entrare nei mercati anche disponendo del sigillo di garanzia. “Con la certificazione il miele è pagato meglio e la redditività media si alza sia all’ingrosso che al minuto – ammette il presidente del consorzio Pietro La Placa – ma resta una nicchia con costi di produzione importanti. Il consumatore attento al marchio Dop o interessato al tipo biologico guarda anche al prezzo finale. Il range tra il costo di base e ciò che la clientela è disposta a pagare è instabile. Il fatto che le aziende abbiano sposato una politica d’immagine condivisa, aiuta a promuovere il nostro prodotto”.

Il segretario Carlo Bruna aggiunge: “Ci sarebbe piaciuto ottenere il marchio d’origine per tutti e tre i principali tipi di miele tutelati dal Consorzio, ma solo quello d’acacia è arricchito dai pollini delle palme che sono tradizionalmente presenti nei giardini del Varesotto, delle laurifoglie e dell’agrifoglio che in provincia di Varese fioriscono insieme alla robinia e gli conferiscono un particolare corredo organolettico. Il miele di castagno e il tipo millefiori (ricavato dalla fioritura estiva dei tigli, delle more di rovo ecc.) subiscono invece la concorrenza di prodotti simili in altre zone d’Italia e non possiamo dire di essere gli unici detentori dell’eccellenza”.

“Dieci euro a vasetto possono sembrare tanti, ma bisogna considerare che la stagione 2016, secondo anno di produzione Dop, è stata disastrosa, bersagliata dal maltempo nei giorni cruciali della fioritura”

Vediamolo allora più da vicino, questo “tesoro” dei nostri boschi e dei nostri prati. Il miele d’acacia si ricava dai fiori della robinia, una pianta molto diffusa in quasi tutto il Varesotto sino a 1300 metri d’altitudine. Essa deve il nome al giardiniere francese Robin che, intorno al ‘600, utilizzò le prime piante importate dall’America. In Italia è conosciuta con varie denominazioni dialettali: reubina, rubina, rubì, rubin, spin rubin, rubet e ruben. Il territorio varesino produce miele da secoli, ma solo all’inizio dell’800 l’apicoltura si diffuse in modo razionale prima nei latifondi e nei conventi, poi nelle tenute agricole coinvolgendo anche parchi pubblici e privati. Le prime tracce contabili risalgono al censimento del Dipartimento del Lario del 30 marzo 1812 e il business prese corpo con lo sviluppo dell’industria. Nel 1870 Amabile Morandi propose di estendere l’apicoltura in tutto il circondario e all’Esposizione agricola e industriale di Varese nel 1871, un intero padiglione fu riservato alle attrezzature per l’allevamento delle api e per la produzione del miele e della cera.

Oggi le imprese che aderiscono alla Dop devono rispettare alla lettera il disciplinare di produzione e chi non si adegua può vendere solo il miele generico, peraltro ottimo. Agli enti pubblici spetterebbe il compito di studiare strategie di marketing e campagne promozionali per informare i consumatori, come è già avvenuto per la formaggella e i vini Igt Ronchi Varesini. E non sempre accade per la cronica scarsità di risorse pubbliche.

L’apicoltore Davide Zeni di Sesto Calende rivendica i meriti della sua categoria: “Siamo una delle prime province italiane nell’allevamento delle api per la presenza diffusa della pianta della robinia. Qui gli hobbisti si riunirono in consorzio nel lontano 1934 per migliorare la formazione e garantirsi una mutua assicurazione in caso di malattie e mortalità delle api. L’ape è un insetto insostituibile in natura perché impollina i fiori e metà del patrimonio apistico morirebbe se non ci fossero gli apicoltori. Pensate che negli anni in cui producono poco, diamo loro da mangiare per non lasciarle morire”.

L’industria del miele offre anche interessanti prospettive occupazionali. “Diverse aziende gestite da giovani e da meno giovani hanno iniziato l’attività negli ultimi anni – conferma Guido Brianza, consigliere del Consorzio, presidente provinciale degli apicoltori e titolare dell’azienda al Ponte di Vedano in attività dal 1929 –. Il mestiere di produttore crea posti di lavoro ma non va improvvisato, i terreni per le arnie si possono prendere in affitto e dunque non servono grandi capitali, ma ci vuole competenza e non bisogna illudersi di fare subito guadagni facili. Tra le malattie delle api e le alluvioni del 1992, 1995 e 2000 io ho dovuto ricominciare più di una volta, quasi da zero. Un consiglio a chi ci fa un pensierino? All’inizio è bene affiancarsi ad un apicoltore professionista, a una persona di esperienza e pian piano si può avviare l’attività in proprio, per consumo famigliare, anche con due sole arnie e un investimento di 1500 euro”.



Articolo precedente Articolo successivo
Edit