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Damiano va piano

Anche se "precario", il lavoro non si tocca. Rispetto ai propositi di ridimensionare la legge Biagi espressi in campagna elettorale, il governo sembra aver adottato una linea di maggiore prudenza.

Michele GragliaLa vicenda dei call center apertasi alla fine di agosto, quando gli ispettori del Ministero del lavoro hanno ritenuto di tramutare in contratti di lavoro subordinato tutti i 3.200 contratti di collaborazione stipulati da una primaria azienda del settore, ha riproposto in termini non accademici, ma pratici, la questione della riforma della legge Biagi, una legge criticata fin dall'inizio dal centro-sinistra perché accusata di favorire la precarietà del lavoro. Ci si interroga su cosa accadrà della Biagi, perché la riforma della legge è stato un cavallo di battaglia del programma elettorale del centro sinistra alle elezioni dello scorso aprile, ma ci si interroga più in generale sul tema del lavoro atipico, sulla precarietà del lavoro, sulle flessibilità necessarie per competere.
Questi temi sono in qualche misura legati e riguardano soprattutto il lavoro interinale o somministrato, come lo ha chiamato da ultimo la legge Biagi e le collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co). Il primo, in buona sostanza, ci è stato imposto dall'Unione Europea con la liberalizzazione del mercato del lavoro che la legge Treu ha realizzato nel 1997. Il secondo, invece, già presente nel nostro codice civile del 1942, è stato soltanto disciplinato fiscalmente e poi nei suoi aspetti previdenziali. In Italia negli ultimi anni - grazie anche a questi due contratti - si può dire sia venuta meno la monoliticità del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Le classiche otto ore al giorno, il posto fisso per tutta la vita.
Le imprese, non solo quelle che utilizzano massicciamente il lavoro atipico come i call center, difendono i margini di flessibilità introdotti dalle leggi Treu e Biagi. I dati sull'andamento dell'occupazione, del resto, mostrano che le ultime leggi hanno contribuito alla sua crescita anche negli scorsi anni di recessione economica. Dati di Confindustria, rilevati dopo il primo anno e mezzo dall'entrata in vigore della legge Biagi, indicano che la struttura occupazionale nel manifatturiero è stabilmente ancorata ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato (oltre il 90% dell'organico aziendale) e che poco meno della metà dei contratti a termine attivati nel 2004 è stata trasformata in contratti di lavoro a tempo indeterminato. Le imprese, che prima erano restie a fare nuove assunzioni sapendo che sarebbe poi stato molto difficile ridure gli organici in caso di contrazione degli ordinativi, hanno accettato nuove commesse sapendo di poter farvi fronte soprattutto con contratti di lavoro interinale. Hanno potuto così assecondare il mercato, recuperare competitività e creare, comunque, nuove occasioni di lavoro. Peraltro, il lavoratore interinale è un lavoratore con tutti i diritti, perché il trattamento economico e normativo è del tutto uguale a quello dei lavoratori che prestano l'attività al fianco nell'azienda dove viene inviato in missione. L'unica diversità è, appunto, la stabilizzazione del rapporto che, almeno nel manifatturiero, si verifica, però, molto frequentemente. Infatti, le imprese fanno sovente ricorso ai contratti interinali come bacino da cui selezionare i futuri contratti a tempo indeterminato. In tal modo, tale contratto diviene uno strumento per affacciarsi al mercato del lavoro e, in questa prospettiva, flessibilità, non equivale a precarietà.
Se torniamo a parlare invece di call center, dobbiamo tornare a parlare di co.co.co. Quello dei call center è un caso estremo. In queste aziende il ricorso ai contratti atipici è molto diffuso. Spiegano le imprese del settore (circa 700 che danno lavoro a 250 mila addetti) che per loro la flessibilità è essenziale: non lavorano per il magazzino. Sul fronte sindacale, l'istituto dei co.co.co. non è mai piaciuto nemmeno dopo che la legge Biagi, con un giro di vite, li ha trasformati in co.co.pro (collaborazioni a progetto). Lavoratori atipici di questo tipo ce ne sono ovunque, nel privato e, con abbondanza, anche nel pubblico. Per anni si è gridato addirittura allo scandalo affermando che ci sarebbero stati oltre tre milioni e mezzo di co.co.co, salvo poi scoprire che, togliendo amministratori di condomini, professionisti, doppio lavoristi regolari e pensionati, i soggetti "deboli", privi di una vera tutela e, soprattutto privi di una prospettiva pensionistica seria, sarebbero molto meno di un milione.
Il sindacato, seppur con posizioni differenti, si sta occupando del problema. Cisl e Uil con maggiore disponibilità, mentre la Cgil sembra ancora critica. La diversità di posizione riscontrabile tra i sindacati dei lavoratori deve aver rafforzato la prudenza della componente più moderata della coalizione di governo nel mettere all'ordine del giorno la riforma della legge Biagi. Il Ministro Damiano ha dichiarato che "la legge 30 è l'ultimo dei problemi" e che "le modifiche andranno comunque concertate con le parti sociali". Per il Ministro la legge non verrà soppressa ma soltanto corretta. In particolare verrebbero eliminate, tra le diverse tipologie di contratti atipici, il job on call (lavoro a chiamata in funzione delle esigenze produttive verso il pagamento di una indennità "di disponibilità") e lo staff leasing (impiego di lavoratori a tempo indeterminato inviati da agenzie specializzate).
Tuttavia, lo stesso Governo sembra anche voler contrastare il ricorso ai contratti di collaborazione aumentando le aliquote contributive dal 17 al 32 per cento, in modo che il differenziale di costo si riduca e si indebolisca l'interesse delle imprese. L'inconveniente è che, così facendo, si semplifica la soluzione di un problema complesso. Il governo deve, infatti, anche dare alle imprese le possibilità di competere sul medesimo piano con quelle degli altri paesi industrializzati. C'è poi, per quanto attiene alla legge Biagi, una considerazione particolare in merito al fatto che si intenderebbe sopprimere lo staff leasing. Bisogna invece, conservarlo perché si tratta di un istituto presente e sempre più praticato in altri paesi industrializzati. Il futuro si indirizza verso quel modello e, se il nostro paese se ne dovesse privare, aumenterebbe il divario con altri mercati nostri concorrenti.
La soluzione al problema della precarietà richiede allora un approccio più allargato. Passa attraverso un progetto di riforma complessivo che garantisca una continuità di diritti e di doveri a tutte le forme di lavoro. Accettata, come necessaria, l'idea che la "discontinuità" nella vita lavorativa sia ormai una caratteristica del nostro tempo si deve dare al "lavoro che cambia" una cornice di regole adatta ai tempi. Non basteranno interventi sporadici e destrutturati. Non servirà estendere diritti e tutele anche dove non possono essere estesi. Sarà invece, necessario lavorare per una ricomposizione delle tutele, per ridefinire l'equilibrio fra politiche passive, di sostegno al reddito e politiche attive, dirette cioè, a favorire l'occupabilità più ancora che l'occupazione. Nel mettere mano a questo progetto si deve considerare la parasubordinazione un'area da tutelare, non da sopprimerere. Un paese che guarda avanti deve consentire che il lavoro si trasformi e divenga postfordista, ovvero più autonomo e più individuale. La parasubordinazione può essere, in questo cammino, una palestra di imprenditorialità. E' un compito difficile ma al quale il Governo e le parti sociali hanno l'obbligo di dedicarsi. L'obiettivo, in parole povere, è un nuovo welfare.

09/22/2006

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