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Unione degli Industriali della Provincia di Varese
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Guardare avanti

Superare i localismi per adeguarsi a un nuovo sistema produttivo, multilocalizzato e multipersonale, e alla crescente esigenza di una nuova forma d'imprenditoria che preveda una logica da "imprenditore collettivo”.

Enzo RullaniViviamo una stagione di grandi cambiamenti. Non solo per i venti di crisi che riempiono le pagine della cronaca quotidiana, ma per le sfide che si profilano all'orizzonte nel medio-lungo periodo. E che - per la provincia di Varese, come per tutta l'economia italiana - sono ardue, molto difficili da affrontare, anche perché richiederebbero chiarezza di idee e spirito di concordia. Due merci diventate sempre più scarse negli ultimi tempi.
Bisogna infatti portare nel circuito globale un paese costellato di localismi che sono concentrati spesso su spazi angusti, a scala comunale o provinciale, mentre i nostri concorrenti si muovono su una scala molto più estesa. Le filiere produttive che hanno consentito a migliaia di piccole imprese di lavorare a rete, specializzandosi in competenze o lavorazioni molto particolari, hanno economie di scala inadeguate per competere con catene produttive che organizzano la divisione del lavoro tra paesi e continenti diversi. La tipica multinazionale dei nostri tempi è un'impresa multi-localizzata che, per ogni attività, sceglie il territorio più conveniente, quello che in quel genere di attività dà le performance migliori ai costi più bassi. E nel carnet delle possibili scelte localizzative tiene ben presenti i molti paesi low cost che, negli ultimi anni, si sono affacciati in modo nuovo e consistente sulla scena internazionale.
Anche il mitico individualismo - personale e familiare - che, in passato, ha profondamente segnato le nostre imprese, ha fatto il suo tempo, nonostante gli indubbi meriti accumulati sin qui. Oggi, la sindrome dell'"uomo solo al comando” è il risultato inerziale di una storia che non sa re-inventarsi per stare al passo con i tempi. In effetti, la crescita delle competenze richieste, degli investimenti da fare e dei rischi da prendere richiede, infatti, il concorso di molte persone. Le imprese devono cambiare pelle assumendo, di conseguenza, un profilo multi-personale, aperto al contributo di managers, quadri, tecnici, fornitori, clienti, imprese di servizio esterne.
La domanda è: in questo nuovo sistema produttivo - multilocalizzato e multipersonale - che cosa rende competitivo il territorio della provincia di Varese, rispetto ad altre possibili localizzazioni produttive?
E' una domanda che un po' tutti i territori si stanno ponendo, per definire l'obiettivo strategico chiave verso cui muoversi nel medio e lungo periodo. Perché mai un'impresa che voglia essere competitiva nella grande arena mondiale dovrebbe avere convenienza a localizzarsi a Varese o a comprare beni, tecnologia, lavorazioni o servizi da imprese di Varese? La globalizzazione mette i territori in concorrenza l'uno con l'altro. E mette in evidenza il fatto che molti dei vantaggi competitivi ereditati dal passato sono invecchiati, hanno perso mordente, di fronte al rapido cambiamento dei mercati e della concorrenza.
Ma non sono solo i territori ad essere in concorrenza tra loro. Lo stesso fenomeno comincia a manifestarsi, in modo rilevante, anche per il lavoro. Il lavoratore di Varese ha un livello di reddito e welfare che non può essere dato per acquisito una volta per tutte, nel momento in cui sul mercato mondiale entrano lavoratori che, in Cina, India, Russa o Est Europa, si offrono a costi che sono tre, cinque, dieci volte inferiori. Se il nostro lavoro non vuole precipitare nel gorgo di una concorrenza di costo destinata a trascinare reddito e welfare sempre più in basso, bisogna che il differenziale (sfavorevole) di costo sia compensato da un differenziale - uguale e contrario - di competenze e abilità professionali. Un lavoro che costa il doppio, in poche parole, deve anche rendere il doppio: ossia deve produrre un valore doppio per il consumatore finale della catena, che poi è quello che paga i costi di tutto il processo produttivo.
Dunque, ecco il traguardo verso cui andare: un "salto di produttività” che, per il territorio e per i lavoratori in esso residenti, costituisce la sfida più difficile da affrontare. Ma è una sfida che deve essere affrontata. E che può essere vinta, seguendo i molti percorsi che consentono di aumentare - in modo rilevante - il valore prodotto da ogni ora lavorata. Soprattutto, bisogna ottenere questo risultato in tempo utile, ossia alla stessa velocità con cui, dall'altra parte del mondo, i paesi e i lavoratori low cost imparano a fare le cose, o parte delle cose, che, finora, abbiamo fatto noi.
Tutti i resoconti che riceviamo dalla Cina o dall'India ci dicono che questi tempi sono strettissimi, perché la velocità con cui i nostri concorrenti low cost imparano è straordinaria. Per tante ragioni. Prima di tutto perché oggi conoscenze anche avanzatissime possono essere trasferite da un capo all'altro del mondo in tempi brevi una volta che il loro contenuto è stato codificato, ossia incorporato in un brevetto, in una macchina, in un componente o in un programma CAD, capace di guidare lavorazioni automatizzate.
Dunque, per compensare il nostro differenziale di costo, non è più sufficiente rinnovare le macchine, cercando di stare sulla frontiera tecnologica, perché le stesse macchine e le stesse tecnologie le possono comprare i cinesi, applicandovi, però, un lavoro che costa ancora molto meno del nostro. Inoltre, quando le conoscenze sono codificate o semplici, diventa facile copiarle e imitarle: lo stanno facendo i cinesi e gli altri produttori a basso costo, come, del resto, abbiamo fatto noi anni fa, all'inizio del nostro ciclo di industrializzazione diffusa.
In questa prospettiva, a preoccuparsi dei nuovi competitors a basso costo non devono essere solo settori tradizionali del made in Italy, già da tempo in crisi, come l'abbigliamento, la calzatura, l'oreficeria ecc.. Ma devono nutrire qualche consistente preoccupazione anche settori che finora sono rimasti al riparo o che hanno addirittura avuto qualche vantaggio iniziale dalla riorganizzazione dell'economia internazionale degli ultimi anni. Varese, ad esempio, ha una robusta base di industria meccanica che è riuscita a spostare verso l'alto la qualità dei propri prodotti e processi, senza grandi traumi. E che ha trovato qualche spazio addizionale nella domanda di beni strumentali che si accompagna all'industrializzazione di nuovi continenti nell'economia mondiale. Di conseguenza, l'economia di Varese ha risentito solo marginalmente del terremoto competitivo che ha investito principalmente altre regioni e altri settori.
Ma non illudiamoci: quel terremoto, prima o poi, arriverà anche qui. E l'onda lunga dell'industrializzazione low cost non si arresterà alle produzioni tradizionali, ma promette di risalire tutta la scala che va dal semplice al complesso, dal facile al difficile.
Che tipo di difesa si può apprestare? Dobbiamo imparare da quello che, prima di noi, hanno fatto altri paesi, come gli Stati Uniti o la Germania, che da tempo hanno imparato a convivere e guadagnare dalla compresenza di aree a diverso costo del lavoro. In pratica, bisogna mobilitare le risorse di cui disponiamo per produrre conoscenze originali (non solo importate o copiate da altri) e dotate di un elevato valore per l'utilizzatore. Certo, nei paesi avanzati realizzano questo obiettivo facendo enormi investimenti, pubblici e privati, nella ricerca scientifica, nello sviluppo delle tecnologie di frontiera e nelle applicazioni hi-tech. E' una strada per noi difficile da percorrere nei tempi brevi richiesti dal riposizionamento competitivo che dobbiamo realizzare. Piuttosto possiamo puntare ad avere accesso alle tecnologie di frontiera elaborate da altri, sviluppando invece soluzioni originali e innovative nel loro uso. Lo abbiamo fatto finora servendo esigenze personalizzate dei clienti, focalizzando la nostra offerta su nicchie globali di consumi e usi molto specializzati e rispondendo rapidamente all'evoluzione dei gusti e dei bisogni. E possiamo continuare a farlo su scala più vasta di un tempo, usando tecnologie più sofisticate e forme organizzative più complesse. Ma, ovviamente, dando mano ai cambiamenti radicali che sono richiesti dalla situazione di oggi.
Per generare valore attraverso l'innovazione di uso, nei mercati attuali, bisogna prima di tutto cambiare le modalità di accesso alla rete di conoscenze che circola nel mondo. Non basta più comprare tecnologie altrui, né copiarle e imitarle, come si è fatto per tanto tempo fino a che la tecnologia aveva una base meccanica o elettro-meccanica. Oggi non si accede ad un bel niente se non si è in grado di padroneggiare i linguaggi formali dell'ingegneria, dell'informatica, del management, della progettazione, del diritto, dell'estetica che consentono alle conoscenze di essere rapidamente trasferite dai luoghi di produzione a quelli di uso. Ci vogliono, per questo, massicci investimenti delle famiglie e dello Stato nell'istruzione della popolazione, e un impegno diffuso, anche se non schiacciante, delle imprese nello sviluppo di ricerche che consentano di rimanere in comunicazione con i centri propulsivi del sapere a scala mondiale.
Una volta rinnovate le nostre capacità di accesso, bisogna essere in grado di usare le conoscenze acquisite producendo nuove conoscenze in modo originale. E questo presuppone non solo un impegno maggiore nell'innovazione e nella sperimentazione del nuovo, ma anche un profilo maggiormente creativo delle nostre imprese e dei nostri uomini. Domandiamoci: il "clima aziendale" in cui si sviluppa oggi l'esperienza quotidiana di imprenditori, managers e dipendenti a Varese, è abbastanza creativo? E l'ambiente in cui l'impresa è immersa, è, a sua volta ricco di stimoli creativi, che sollecitano la sperimentazione del nuovo invece di frenarla?
In molti casi, e magari per diverse ragioni, ci verrebbe da rispondere di no. E questo è un bel problema: rinnovare le radici della nostra creatività, anche al di fuori della moda, è una delle questioni decisive per far valere una nostra differenza nella nuova concorrenza mondiale.
Infine, le buone idee, quando vengono, devono essere sfruttate economicamente e rendere. Perché questo accada, bisogna moltiplicarne gli usi, moltiplicando il valore che, di conseguenza, se ne ritrae. Molte delle piccole imprese attuali lavorano invece inventando una nuova soluzione (geniale) ogni giorno, senza attrezzarsi per riusare le buone idee due, dieci, cento o mille volte, se possibile. Invece è proprio il riuso che trasforma una buona idea in un business redditizio. E che genera flussi di investimento capaci di auto-alimentarsi.
Il bacino di uso delle innovazioni imprenditoriali è oggi troppo stretto. Il lavoro necessario per standardizzare, codificare, conservare e trasferire il proprio sapere è un lavoro ben speso se moltiplica i potenziali usi e dunque il potenziale valore di ogni soluzione efficiente. Occorre, per questo, allargare le reti di cui si dispone per vendere le proprie idee, usando anche meglio i marchi, le reti distributive, i brevetti, le licenze e i contratti di franchising come mezzi per espandere il bacino di uso delle conoscenze di cui si dispone.
Insomma, la strada è lunga. Solo in parte può essere percorsa da imprese che agiscano isolatamente. Per buona parte dei cambiamenti che occorre mettere in agenda bisogna invece che si affermi una logica da "imprenditore collettivo”, tale da consentire alla politica, da un lato, e al lavoro, dall'altro, di muoversi in sintonia. Tutti gli attori locali hanno infatti interesse a convergere sull'obiettivo strategico di fondo: rigenerare, innovando, il differenziale di produttività e di competenze che difende il nostro vantaggio competitivo dalla concorrenza, sempre più pressante, dei paesi low cost.
Tra chi sta avanti e chi insegue, in questa corsa, le posizioni possono essere diverse; ma la velocità deve essere la stessa. E non la scegliamo noi.

05/05/2006

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