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Made in Italy più sicuro con l'etichetta di tracciabilità

Un'informazione che specifica e rende più trasparente e veritiero quel "made in" su cui tanto l'Italia ha lottato in sede di Unione Europea. E che, per certi versi, la supera mostrando non solo se una percentuale sufficiente di quel prodotto è realizzata in Europa, ma anche quale lavorazione va in capo a quale paese.

Non poteva che nascere in una provincia più unica che rara in fatto di tessile, in uno dei pochi luoghi d'Europa in cui un capo di abbigliamento o un tessuto d'arredo può essere trattato dall'uso del filo alla vendita del prodotto.
L'idea di un certificato volontario di tracciabilità del prodotto tessile, che ora è patrimonio dei distretti tessili d'Italia ed è stato presentato alla scorsa edizione di Milano Unica, la fiera internazionale del tessile, è stata infatti inventata e testata in provincia di Varese: una delle pochissime province europee, ormai, dove è presente tutta la filiera del settore.
Ad avviarla in concreto, la Camera di Commercio di Varese con il supporto tecnico del Centro Tessile Cotoniero e dell'Abbigliamento di Busto Arsizio in collaborazione con l'Università Carlo Cattaneo - LIUC: ora però l'idea di una etichetta non obbligatoria che racconti senza bugie dove davvero è stato realizzato un capo di abbigliamento o un asciugamano di lino è patrimonio delle Camere di Commercio italiane e più precisamente dell'ITF, l'Italian Textile Fashion, organismo che riunisce le 21 Camere di Commercio delle aree tessili del nostro paese.
L'etichetta di tracciabilità - rilasciata a quelle aziende che, dopo aver superato le verifiche e aver dimostrato di essere in grado di tenere traccia documentale delle proprie lavorazioni, possono garantire in modo attendibile e verificabile le fasi di lavorazione - racconta innanzitutto ai consumatori dove si sono svolte le quattro principali fasi della realizzazione del prodotto, in particolare provenienza del filato e luoghi dove il filo è stato rispettivamente tessuto, nobilitato e confezionato. Una informazione che specifica e rende più trasparente e veritiero quel "made in" su cui tanto l'Italia ha lottato in sede di Unione Europea: e che, per certi versi, la supera mostrando non solo se una percentuale sufficiente di quel prodotto è realizzata in Europa, ma anche quale lavorazione va in capo a quale paese. Informazioni per niente scontate: uno studio effettuato qualche anno fa dal Centrocot su 390 campioni commerciali aveva già evidenziato come, di essi, oltre la metà (il 58%) avesse etichette che non ne indicavano la provenienza, e come quasi il 90% dicesse il falso rispetto alle etichette che riportava. L'etichetta fa poi anche di più, segnalando l'assenza di elementi potenzialmente cancerogeni nel prodotto: un "difetto" che troppo spesso prodotti tessili tinti e trattati a poco prezzo possiedono, come ha indicato una ricerca del 2006 su capi prelevati in cinque città campione europee. Ricerca, che ha visto non solo non rispettate le prescrizioni di legge relative alla composizione fibrosa del tessuto nel 57,6% dei casi, ma anche la presenza di ammine aromatiche cancerogene, sostanze nocive alla salute dell'uomo e proibite dalle Direttive Comunitarie, nel 9,5% dei capi esaminati.
L'etichetta di tracciabilità ha così innanzitutto lo scopo di evidenziare il vero prodotto "made in Italy", quello principalmente confezionato in Italia e quindi, si suppone, con una qualità superiore: rassicurando il consumatore sul fatto che quelle inevitabili somme pagate in più per il capo che indossa o utilizza per la casa sono state spese per avere esattamente ciò che chiedeva, cioè un capo realizzato nel paese leader al mondo per la lavorazione tessile.
Ma, dal punto di vista economico, permette anche circoli virtuosi tra le aziende più piccole, che sono incentivate a collaborare tra loro per aumentare il "tasso di italianità" del prodotto certificato, contribuendo così alla rinascita di un settore che ha visto per troppi anni il suo sviluppo caratterizzato dal segno meno.
Per ora, le aziende e i prodotti che hanno il "certificato di tracciabilità" sono una cinquantina in tutta Italia: aziende che fanno bandiera del proprio prodotto "davvero italiano", che con questa certificazione di qualità geografica ne marcano la differenza. Una politica che, per chi l'ha scelta, sembra stia pagando in tutto il mondo.

Il tessile europeo si riunisce a Varese

L'evento è di livello europeo e sarà ospitato da Varese. A testimonianza che la vocazione a polo congressuale della Città Giardino ha le carte in regola per trasformarsi in realtà. O almeno così è per l'appuntamento che vedrà riunirsi al Palace Grand Hotel le imprese aderenti all'Aiuffass, l'associazione che raggruppa l'industria europea di tessitura e torcitura della seta e delle fibre sintetiche continue. In pratica quelle imprese tessili che producono tessuti per l'abbigliamento e fodere per l'interno dei vestiti. Una categoria che terrà il suo cinquantatreesimo congresso all'ombra delle Prealpi con aziende provenienti da tutto il continente. A partecipare saranno, infatti, imprenditori del Belgio, della Germania, della Francia, della Lituania, del Regno Unito, della Spagna, della vicina Svizzera e della già più lontana Turchia. Oltre ai titolari d'impresa italiani e varesini. L'evento si spalmerà su tre giornate, dal 15 al 17 maggio. Tra i temi che verranno trattati ci sarà il focus sulla tessitura della seta e delle fibre chimiche continue, che verrà presentato dallo Studio Ambrosetti, durante la giornata di venerdì 16 maggio. Spunto per una discussione più ampia a cui farà da filo conduttore il titolo dato al pomeriggio di lavori: "Il settore tessile: aspetti critici e fattori di successo alla luce dello scenario globale e dell'evoluzione dei settori a valle della filiera".

04/04/2008

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