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Una Costituzione in cerca di conferme

Il lungo processo di ratifica alla nuova Costituzione europea sta portando scompiglio nelle stanze dei palazzi di Bruxelles. I dissensi di Francia e Olanda fanno temere una sempre maggiore difficoltà nei processi decisionali e nella stabilità dell’euro.

La sede del Parlamento Europeo a StrasburgoI francesi e gli olandesi hanno inferto un duro colpo all'Unione europea. Il trattato costituzionale da essi respinto è tutt'altro che un capolavoro come strumento per il governo federale di 25 stati-nazione; ma esso consentirebbe quanto meno una gestione della Comunità meno farraginosa dell'attuale. Non sappiamo a questo punto se i procedimenti di ratifica continueranno, per tentare alla fine di indurre al ripensamento gli attuali refrattari, o se ci si avvierà ad una rinegoziazione totale o parziale del trattato, o se si ripiegherà sulla situazione esistente puntando da parte di qualche stato su forme consentite di "cooperazione rafforzata". In questo stato di incertezza possiamo intanto valutare i mali prodotti dal voto negativo di fine maggio.
Il primo male riguarda l'interruzione del processo per cui l'Europa tende a costituirsi come soggetto politico nel sistema delle grandi potenze mondiali. Il trattato bocciato delinea alcuni essenziali strumenti per la instaurazione di una politica europea comune. Sotto questo profilo non c'è però forse troppo da dispiacersi. E' un'illusione pensare che nelle presenti condizioni gli stati europei, anche con nuovi strumenti istituzionali, possano raccogliersi attorno a una polita estera unitaria ed efficace; e del resto l'attuale disunione garantisce quanto meno che l'Europa non si contrapponga compattamente alla politica degli Stati Uniti, nostro necessario partner oggi e per sempre. Ma nel lungo corso il destino del nostro continente, in un mondo di giganti, è l'unificazione se si vuol giocare alla pari. E a un certo momento occorrerà incominciare a porre le basi per l'organizzazione di un vero soggetto politico europeo.
Gli effetti negativi principali del voto francese e olandese riguardano dunque al presente soprattutto la vita interna della Comunità. Prendere decisioni nel Consiglio europeo dei ministri con il consenso in molti casi necessariamente unanime di 25 stati - 10 si sono aggregati da poco - diventerà difficilissimo. Corriamo il rischio della paralisi e, se le tensioni cresceranno, della disgregazione. D'altronde l'analisi dei veri motivi che hanno determinato il voto popolare di maggio mette in luce un atteggiamento il quale rappresenta, se perdurasse e si estendesse ad altri popoli, un pericolo grave non solo per l'esistenza della Comunità ma anche per lo stesso benessere dei singoli stati. Si è bocciato il Trattato soprattutto perché si è ritenuto che esso mettesse in forse le strutture del modello sociale che caratterizza gli ordinamenti europei, in contrapposizione a quello "anglo-americano". La situazione economica presente è di grave ristagno e di estesa disoccupazione e il rimedio a essa viene ravvisato da molti in un maggiore interventismo e assistenzialismo dello stato nazionale. Il Trattato consolida invece le libertà di un grande mercato unico europeo, con la circolazione libera di tutti i fattori della produzione e dunque con la destabilizzazione di varie posizioni acquisite, cui non si vuol rinunciare. Il ripiegamento sotto la protezione dello stato nazionale, implicitamente auspicato dal voto di maggio, è però una vera illusione. Sempre più i popoli europei saranno esposti a una crescente, inarrestabile concorrenza internazionale, per affrontar la quale non serve rinchiudersi nel castello degli isolati stati nazionali. Solo può salvarci una adeguata riforma dei nostri ordinamenti sociali, la quale perciò va affrontata subito, nell'ambito di un comune quadro europeo, quantunque le necessarie riforme possano comportare temporanei passaggi dolorosi. E sarebbe il più grave degli errori affidarsi, come alternativa, a politiche statali di accentuato deficit spending, le quali negli anni Settanta condussero noi italiani non a rilanci dell'economia ma a una crisi travolgente. Né si potrebbe sperare, qui in Italia, di trovar la via d'uscita nell'abbandono dell'euro, nel ritorno alla lira e nel ripudio di Maastricht, contando di poter poi sfruttare la possibilità di furbesche svalutazioni per rimediare all'incapacità di tenere in riga le eccessive richieste dei vari gruppi sociali. Il resto d'Europa ci farebbe pagar carissimo il tentativo, senza dire che la resa davanti al disordine permanente dei rapporti economici interni sarebbe indizio di una fatale decadenza del paese.
Insomma, a fronte del voto negativo di maggio, a noi italiani come agli europei in genere non resta altro che decidersi a rimodellare in senso dinamico i nostri sistemi, accettando al tempo stesso che la Comunità continui nel suo processo di sempre maggiore liberalizzazione.

06/17/2005

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